Chiara Cruciati - il Manifesto
Non c’è pace per Raqqa. Le bombe francesi e russe non cessano di cadere
sulla città massacrata dalla morsa islamista. Quasi impossibile
comunicare con chi è rimasto: internet è bloccato da mesi, gli attivisti
sono sotto stretta sorveglianza.
Restano i telefoni con cui qualche
temerario racconta ai rifugiati all’estero una vita sotto attacco dei
tanti attori locali e globali della guerra civile siriana.
Da quasi una settimana i raid internazionali si sono intensificati e ai morti islamisti si aggiungono i primi civili. Se Mosca nega,
l’Osservatorio Siriano per diritti umani ribatte: sono oltre 1.300 i
morti nelle operazioni russe, di cui due terzi miliziani di Isis e
al-Nusra e 403 civili; altri 3.700 le vittime degli Usa, di cui 226
civili. Un numero che secondo altre fonti supera le 350 unità.
I civili pagano lo scotto della guerra e a poco servono i volantini che l’aviazione di Washington fa piovere sulle città target per avvertire dei prossimi bombardamenti. Al danno si aggiunge la beffa: tali azioni militari – dicono da Raqqa – servono a poco. Parigi,
Mosca, Washington non sono efficaci contro un nemico quasi invisibile,
che si nasconde tra i civili e si protegge dentro bunker e tunnel, che
sa come muoversi verso zone più sicure (oggi, incredibilmente,
Mosul) e proseguire nella gestione dei propri affari. Il presidente
francese Hollande difende la tattica dei raid e promette di triplicare
la forza di fuoco, una volta che la portaerei Charles de Gaulle arriverà
a destinazione, lungo le coste siriane. Eppure ad oggi i 3mila
bombardamenti Usa al mese non hanno modificato gli equilibri sul
terreno.
Ci prova la Russia a farsi pubblicità:
i caccia di Mosca avrebbero completamente distrutto il sistema militare
di Daesh in molte province siriane, ha detto ieri il colonnello
Kartapolov, capo del centro direzionale dell’esercito. Di certo hanno
costretto i leader islamisti alla fuga, ma sul terreno restano i
miliziani che eseguono gli ordini a distanza.
Tra Siria e Iraq
rimbombano le sirene della guerra, ma la diplomazia mondiale continua a
discutere del presidente Assad, un gioco al massacro dove a perdere sono
i popoli mai consultati. L’Arabia Saudita balla da sola
invitando le opposizioni ad unirsi sotto la bandiera di Riyadh (in un
incontro a dicembre); la Russia si allea con la Francia ma poi la accusa
di non aver chiesto autorizzazioni all’intervento a Damasco; gli Stati Uniti reiterano l’efficacia del piano varato a Vienna e promettono passi
avanti nelle settimane a venire. Che vedranno anche la soluzione – dice
il Dipartimento di Stato – della questione Assad. Peccato che la Casa
Bianca abbia già posto la sua precondizione: il presidente siriano deve
farsi da parte.
L’Iraq si spacca
Una visione manichea da parte di
un Occidente colpevole che non guarda né agli equilibri diplomatici e
militari né alle divisioni profonde che gli ultimi anni hanno provocato
in Siria e Iraq. Le comunità locali si sono frammentate su basi
settarie come mai prima e il futuro che attende il cuore del Medio
Oriente potrebbe essere peggiore del presente. Lo sa bene l’Iraq dove oggi a dettare legge sono le armi. L’ultimo mese ha visto un incremento drammatico degli scontri tra peshmerga kurdi e milizie sciite, in quella che si prospetta come la prossima guerra per i territori contesi.
Le milizie sciite Asaib Ahl al-Haq spadroneggiano e scavalcano il governo di Baghdad: giovedì
i suoi leader hanno chiesto altre armi al governo centrale, balia di
gruppi armati ormai incontrollabili. Tanto potenti da minacciare azioni
militari se il budget per il 2016 non sarà rivisto. Già i primi di
novembre Akram al-Jaabi, leader delle Harakat al-Nujaba, potente milizia
sciita vicina all’Iran e attiva anche in Siria, ha parlato di possibile
colpo di Stato se la propria guida, l’Ayatollah Khamenei, dovesse
richiederlo.
Sono le milizie a
decidere, a compiere le operazioni militari, a scontrarsi con i
peshmerga a sud di Kirkuk, nella zona di Tuz Khurmatu. Almeno 20 i morti, fino alla firma di una volatile tregua, lunedì scorso, e la liberazione da parte sciita di 15 ostaggi peshmerga.
Ma sotto la pentola ribollono
settarismi che esploderanno a breve, soprattutto in vista dell’avanzata
kurda intorno Sinjar: «Quanto accade a Tuz Khurmatu è deliberatamente
provocato sia dai peshmerga che dalle milizie sciite – spiega al manifesto
il giornalista iracheno Salah al Nasrawi – Tuz Khurmatu è una comunità
turkmena sciita sotto l’amministrazione di Salah-a-din, Iraq. Ma dopo
l’avanzata di Daesh, i kurdi ne hanno assunto il controllo. Gli sciiti non accettano che comunità sciite cadano sotto i kurdi.
Ora, nonostante il cessate il fuoco, la contraddizione è ancora
presente: le milizie sciite hanno ripetuto che cacceranno i kurdi non
solo da Tuz Khurmatu, ma anche da Sinjar. Una dichiarazione fondamentale
per comprendere il futuro che gli sciiti immaginano nelle zone
considerate contese. Parliamo di milizie potentissime, che non
rispondono più al governo e puntano a Baghdad: chiedono armi, denaro,
miliziani e stanno pianificando di sostituire l’esercito. Non combattono
solo i kurdi, ma anche il governo di al-Abadi».
«Kirkuk,
Sinjar, Diyala, Salah-a-din: zone fondamentali per la loro guida,
l’Iran, che non vuole uno Stato kurdo al proprio confine e che punta ad
un collegamento diretto con la Siria. Un eventuale entità statale kurda
lo impedirebbe».
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