In Tunisia è di nuovo stato d’emergenza. L’ennesimo colpo alla difficile
transizione democratica intrapresa dal paese dopo le rivolte del
2010-2011 è giunto ieri: dodici persone sono state uccise e 17 ferite
nell’esplosisione di una bomba che ha centrato un autobus con a bordo
guardie presidenziali.
Secondo le autorità tunisine si è trattato di un attentato suicida,
realizzato nella centralissima Mohamed V Avenue, tra le principali
strade della capitale tunisina, piena di hotel e banche. Le
guardie presidenziali stavano salendo nell’autobus che le avrebbe
portate fuori città quando la bomba (o il kamikaze) è esplosa.
Stavolta i kamikaze non hanno colpito i turisti stranieri, come
successo al museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse, né l’industria
del turismo che tiene in piedi un paese ancora non privo di
disuguaglianze sociali e economiche. Stavolta il target era il
potere costituito, rappresentato dalle forze armate a difesa del
presidente. Per ora nessun gruppo ha rivendicato l’azione, tanto da far
immaginare che non sia stato ordito da gruppi estremisti esterni, come
lo Stato Islamico, ma da cellule interne interessate a destabilizzare
l’attuale governo.
L’attacco ha di nuovo dato mano libera al governo del presidente
Essebsi nel distribuire ulteriori poteri alle forze di sicurezza: 30
giorni di stato di emergenza e coprifuoco fino alle 5 di stamattina.
Subito sono stati chiusi siti turistici e l’aeroporto di Tunisi, nel timore si trattasse del primo di una serie di attentati.
Dal 2011 ad oggi, dalla deposizione del dittatore Ben Alì, la Tunisia
ha tentato di intraprendere la via democratica e pluralista, tra enormi
difficoltà: assassini politici di esponenti delle sinistre (da
molti imputati al governo islamista di Ennahda), violenza politica,
attacchi alle manifestazioni, un flusso costante di nuovi affiliati allo
Stato Islamico che pesca in Tunisia il più alto numero di adepti.
Una situazione di instabilità interna a cui si aggiunge l’incapacità
delle istituzioni tunisine a far fronte alle problematiche serie che
spinsero il popolo in piazza nel dicembre del 2010: disuguaglianza
sociale ed economica tra nord e sud, alto tasso di disoccupazione
giovanile, alto tasso di povertà, soprattutto tra le comunità rurali.
A ciò si aggiunge la stretta governativa contro le voci critiche: giustificandosi
con la lotta al terrorismo interno e internazionale, il governo di
Tunisi ha messo in piedi una nuova normativa anti-terrorismo che pare
più volta a mettere sotto silenzio le opposizioni che a frenare le
cellule estremiste. Dopo gli attacchi al Bardo e a Sousse, sono
stati dispiegati per le strade migliaia di poliziotti e soldati; un
muro è stato costruito al confine con la Libia; migliaia di persone sono
state detenute e interrogate per sospette connessioni con gruppi
terroristici; premi in denaro sono stati promessi a chi fornisce
informazioni su sospette attività terroristiche; 80 moschee accusate di
incitare alle violenze sono state chiuse per ordine governativo. Come
spesso accade la libertà viene piegata alle necessità della sicurezza. L’obiettivo
che può essere imputato a chi questi attacchi li compie: obbligare un
paese che cerca più democrazia a ripiegarsi su stesso, schiavo delle
stesse dinamiche liberticide del passato.
Non a caso, dopo le elezioni nazionali della scorsa primavera la
Tunisia si è vista riproporre volti conosciuti: la sconfitta del partito
islamista Ennahda, collegato ai Fratelli Musulmani, ha aperto la strada
a Nidaa Tounis e a molti esponenti dell’ex regime di Ben Alì. Lo stesso
presidente Essebsi e il primo ministro Essid erano uomini
dell’establishment politico del dittatore deposto.
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