L’intensità della reazione congiunta di Francia e Russia cambia i piani dello Stato Islamico. Ieri l’Osservatorio Siriano per i diritti umani riportava del trasferimento di molti miliziani e delle loro famiglie dalla “capitale” Raqqa verso l’irachena Mosul. Tra loro anche i leader del gruppo, in fuga dopo l’uccisione di 33 islamisti negli ultimi bombardamenti.
Non si pensi ad una ritirata: chi resta a Raqqa si sta organizzando. Avrebbero lasciato le postazioni note, campi di addestramento, quartier generali, più volte target dell’aviazione francese, per nascondersi tra i 350mila civili rimasti, nei quartieri abitati, nelle case abbandonate da chi fuggì un anno fa. Una mossa che si accompagna al controllo delle strade in uscita da Raqqa: ai residenti, che nei giorni scorsi hanno cercato riparo nelle campagne, ora viene impedito di andarsene.
A raccontare ai media la vita a Raqqa sono i rifugiati all’estero, in
costante contatto telefonico con amici e parenti rimasti in Siria,
visto che internet è stato bloccato dagli uomini di al-Baghdadi: il
califfato si attenderebbe un’invasione via terra da parte di forze kurde
(la nuova formazione Forze Democratiche sostenute dalla coalizione)
e non meglio definite forze arabe, forse le milizie anti-Assad da anni
finanziate dall’Occidente.
Di certo Raqqa è nel mirino e l’Isis ne è consapevole: le forze kurde siriane hanno strappato agli islamisti la città di Hol e stanno ora marciando verso Shaddadeh, a sud di Hasakah e 150 km a est di Raqqa, speculare a Sinjar in Iraq. Se presa, i kurdi delle Ypg e i peshmerga assumerebbero il controllo di entrambe le zone di confine, irachena e siriana, il corridoio di territorio prima usato dallo Stato Islamico per muovere uomini, armi, petrolio di contrabbando. Si aprirebbero di fronte ai kurdi siriani le montagne di Abdul-Aziz, primo passo verso la “capitale” islamista.
Lo Stato Islamico non può attendere oltre: si starebbe preparando ad un eventuale scontro diretto, ponendo difese intorno alla città e impedendo la fuga ai civili, potenziali scudi umani. Si mescolano alla gente, evitano di utilizzare i veicoli militari durante le ore notturne, si muovono a piedi nei vicoli di Raqqa per non essere localizzati. Scavano tunnel e trincee, raccontano gli attivisti presenti in città, e hanno posto contenitori pieni di carburante lungo il perimetro esterno, da incendiare in caso di un attacco da fuori.
Prendono precauzioni: dopotutto 33 miliziani uccisi in tre giorni non sono molti e confondersi ai civili potrebbe in parte frenare la risposta aerea occidentale, che in questi giorni si è concentrata su zone non abitate e su centinaia di camion di greggio. I leader hanno preferito spostarsi a Mosul, meno seguita dalla coalizione internazionale, ma che ora potrebbe tornare nel mirino. La seconda città irachena è quasi del tutto circondata: Sinjar a ovest, Erbil a est, e la via verso la Siria tagliata a metà dalla presenza peshmerga.
I limiti nella reazione, però, sono di nuovo dettati dalle frizioni interne al fronte anti-Isis: ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov è tornato a criticare la strategia Usa, definendola contradditoria: «Vogliono pescare un pesce senza bagnarsi i piedi». Al centro resta il presidente siriano Assad, che gli Stati Uniti non intendono facilitare con i raid, mentre i russi lo sostengono bombardando le zone delle controffensive.
Ma, raid o meno, il problema resta la limitatezza della risposta globale al califfato. In un anno e mezzo non sono state prese misure concrete per scalfire le sue ingenti entrate finanziarie, a partire dalle vendita di petrolio sottobanco e dalle ricche donazioni di simpatizzanti privati nel Golfo: secondo uno studio della Reuters, l’Isis gode di un patrimonio di 2mila miliardi di dollari, derivanti da contrabbando di greggio, controllo delle risorse naturali e minerali, estorsioni, tasse. Troppo denaro per restare fuori dal sistema finanziario mondiale.
Allo stesso modo non si è mai lavorato seriamente al controllo dei movimenti dei nuovi adepti che entrano dalla Turchia senza ostacoli di sorta. Per far fronte al problema, Ankara ha annunciato un’operazione congiunta con gli Usa per il monitoraggio della frontiera con la Siria, in ritardo di un anno e mezzo. Per lungo tempo le autorità turche, con il sostegno di servizi segreti, esercito e gendarmeria, hanno permesso agli islamisti di entrare in Siria con armi e veicoli. Erano necessari a demolire il progetto di confederalismo democratico kurdo teorizzato dal Pkk e concretizzato da Rojava.
Adesso che l’Isis, novello Frankestein, si è reso incontrollabile, anche la Turchia dice di voler fare la sua parte: chiuderà tutto il confine e potrebbe lanciare un’operazione militare, ha detto il ministro degli Esteri turco Sinirlioglu.
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Di certo Raqqa è nel mirino e l’Isis ne è consapevole: le forze kurde siriane hanno strappato agli islamisti la città di Hol e stanno ora marciando verso Shaddadeh, a sud di Hasakah e 150 km a est di Raqqa, speculare a Sinjar in Iraq. Se presa, i kurdi delle Ypg e i peshmerga assumerebbero il controllo di entrambe le zone di confine, irachena e siriana, il corridoio di territorio prima usato dallo Stato Islamico per muovere uomini, armi, petrolio di contrabbando. Si aprirebbero di fronte ai kurdi siriani le montagne di Abdul-Aziz, primo passo verso la “capitale” islamista.
Lo Stato Islamico non può attendere oltre: si starebbe preparando ad un eventuale scontro diretto, ponendo difese intorno alla città e impedendo la fuga ai civili, potenziali scudi umani. Si mescolano alla gente, evitano di utilizzare i veicoli militari durante le ore notturne, si muovono a piedi nei vicoli di Raqqa per non essere localizzati. Scavano tunnel e trincee, raccontano gli attivisti presenti in città, e hanno posto contenitori pieni di carburante lungo il perimetro esterno, da incendiare in caso di un attacco da fuori.
Prendono precauzioni: dopotutto 33 miliziani uccisi in tre giorni non sono molti e confondersi ai civili potrebbe in parte frenare la risposta aerea occidentale, che in questi giorni si è concentrata su zone non abitate e su centinaia di camion di greggio. I leader hanno preferito spostarsi a Mosul, meno seguita dalla coalizione internazionale, ma che ora potrebbe tornare nel mirino. La seconda città irachena è quasi del tutto circondata: Sinjar a ovest, Erbil a est, e la via verso la Siria tagliata a metà dalla presenza peshmerga.
I limiti nella reazione, però, sono di nuovo dettati dalle frizioni interne al fronte anti-Isis: ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov è tornato a criticare la strategia Usa, definendola contradditoria: «Vogliono pescare un pesce senza bagnarsi i piedi». Al centro resta il presidente siriano Assad, che gli Stati Uniti non intendono facilitare con i raid, mentre i russi lo sostengono bombardando le zone delle controffensive.
Ma, raid o meno, il problema resta la limitatezza della risposta globale al califfato. In un anno e mezzo non sono state prese misure concrete per scalfire le sue ingenti entrate finanziarie, a partire dalle vendita di petrolio sottobanco e dalle ricche donazioni di simpatizzanti privati nel Golfo: secondo uno studio della Reuters, l’Isis gode di un patrimonio di 2mila miliardi di dollari, derivanti da contrabbando di greggio, controllo delle risorse naturali e minerali, estorsioni, tasse. Troppo denaro per restare fuori dal sistema finanziario mondiale.
Allo stesso modo non si è mai lavorato seriamente al controllo dei movimenti dei nuovi adepti che entrano dalla Turchia senza ostacoli di sorta. Per far fronte al problema, Ankara ha annunciato un’operazione congiunta con gli Usa per il monitoraggio della frontiera con la Siria, in ritardo di un anno e mezzo. Per lungo tempo le autorità turche, con il sostegno di servizi segreti, esercito e gendarmeria, hanno permesso agli islamisti di entrare in Siria con armi e veicoli. Erano necessari a demolire il progetto di confederalismo democratico kurdo teorizzato dal Pkk e concretizzato da Rojava.
Adesso che l’Isis, novello Frankestein, si è reso incontrollabile, anche la Turchia dice di voler fare la sua parte: chiuderà tutto il confine e potrebbe lanciare un’operazione militare, ha detto il ministro degli Esteri turco Sinirlioglu.
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