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25/11/2015

Bombe al posto del dialogo: si sono "dimenticati" l'Iraq

Chiara Cruciati – Il Manifesto

L’esplosione in volo del jet russo per mano del turco Erdogan preannuncia un futuro incerto. Il rumore di quell’esplosione rimbomba anche in Iraq, impantanato in una strategia globale che è solo militare. Mai diplomatica, che lavori al dialogo costruttivo tra le diverse anime del paese.

La Russia strumentalizza l’Iraq per prendersi la Siria, i sonni dell’Occidente sono turbati dall’incubo Assad. Eppure il paese è profondamente diviso in etnie e fedi diverse, distanza che rallenta la controffensiva anti-Isis. Se la realtà è questa c’è da chiedersi a che serva l’intervento esterno. In Siria alle bombe si affianca il negoziato, seppur limitato e condizionato dagli interessi dei due fronti, il pro e l’anti Assad. In Iraq no: si bombarda Ramadi, si bombarda Mosul, si bombarda Sinjar, ma non si guarda al caos interno. Per la prima volta ieri la portaerei francese Charles de Gaulle ha colpito target Isis a Ramadi e Mosul. Resta però in stand by la controffensiva governativa nella provincia di Anbar, ma soprattutto il coinvolgimento della comunità sunnita: la formazione di milizie locali annunciata dal governo procede a stento, goccia nell’oceano dei settarismi interni.

L’esercito di Baghdad ha liberato 22 quartieri di Ramadi su 39, ha detto ieri il capo delle forze irachene anti-terrorismo. Agli Stati Uniti non basta. Dopotutto, dice la Casa Bianca (dimenticando come ha demolito in un decennio l’esercito iracheno), armi continuiamo a mandarne. Facendo infuriare il governo regionale del Kurdistan: «La coalizione manda tutto a Baghdad – ci diceva pochi giorni fa il portavoce del Krg, Safin Dezaee – Anche quelle destinate ai nostri peshmerga, perché i loro team le ispezionino. Una perdita di tempo. Siamo in prima linea senza armi pesanti».

Erbil si lamenta ma ha saputo ritagliarsi uno spazio grazie alle capacità militari dei peshmerga e al sostegno esterno, soprattutto turco. Ankara vede in Erbil l’anti-Pkk, i kurdi con cui dialogare, quelli di cui vendere il petrolio. E mentre bombarda i combattenti di Ocalan nelle montagne irachene di Qandil e soffoca – sfruttando l’Isis – il progetto democratico nella siriana Rojava, all’alleato Barzani fornisce aiuto. Perché la tenuta del Kurdistan iracheno serve gli interessi turchi: greggio per l’Europa e opposizione ideologica al Pkk.

Si lamentano anche le tribù sunnite: in un’intervista al Washington Times, i leader tribali hanno accusato gli Usa di aver prima assassinato la sollevazione sunnita nel 2008 e di aver poi costretto la comunità a sottomettersi ad un governo sciita incapace di arginare le influenze iraniane: «Il solo modo che gli Usa hanno per comunicare con noi è tramite Baghdad – dice uno dei leader, Sheikh Almahlawi – e quel governo ci combatte tramite le milizie sciite».

E l’Iraq si frammenta. Dal 2003, dalle prime bombe su Saddam, Washington non ha mai nascosto l’intenzione di fare del paese uno Stato federale, dove ogni etnia e religione controllasse la sua fetta di territorio. Per molti l’applicazione del modello libanese – le massime cariche dello Stato affidate ognuna al rappresentante di una diversa setta – non è altro che la realizzazione del motto imperialista “divide et impera”.

Di certo gli Stati Uniti una parte dell’obiettivo l’hanno archiviata: cancellare l’unità di un paese disegnato a tavolino con Sykes-Picot. La realtà parla da sé: nessuna comunità pare intenzionata a vivere con le altre, divisione amplificata dalla lotta globale all’Isis.

A non tutti però un Iraq-puzzle piace. Uno di questi è l’Iran, non tanto preoccupato per il prezzo pagato dai civili, quanto interessato ad un governo centrale capace di gestire l’intero paese, da Mosul a Bassora. Perché l’Iraq è strategico: geograficamente e politicamente è il collegamento diretto con i bastioni sciiti di Damasco e Hezbollah. In Iraq gli stivali dei pasdaran sono poggiati da tempo, primo passo verso la Siria.

Per questo ieri l’Ayatollah Khamenei ha alzato la voce contro la strategia della separazione Usa: «Gli americani non dovrebbero essere autorizzati a parlare di divisione dell’Iraq. L’unità nazionale va protetta». Che dietro le quinte ci fossero i burattinai occidentali è oggi indiscutibile. Che l’Iraq sia già diviso, anche. La comunità sunnita non ha fiducia nel governo (lo ha dimostrato con proteste accese, uccise dall’ex premier al-Maliki). Le milizie sciite approfittano del potere archiviato per espandersi. I kurdi allargano i confini e gli scontri a Kirkuk con i miliziani sciiti proseguono.

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