di Francesca La Bella
Dopo gli attentati di Parigi e l’incremento dei timori rispetto alla
capacità di mobilitazione e di azione dello Stato Islamico (IS), molti
analisti e rappresentanti statali si sono espressi sul destino della
Libia. Se il Ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drian ha
sottolineato la necessità di un summit internazionale che coinvolga i
Paesi dell’area (Egitto e Tunisia in primis) teso a risolvere la contesa
libica in quanto le divisioni interne al Paese africano
sarebbero, a suo parere, la causa principale dell’espansione e del
sempre maggiore radicamento del movimento islamista in tutta l’area
nord-africana, lo stesso Ministro degli Esteri del Governo di
Tobruk ha preso parola sulla questione. In un intervista rilasciata alla
stampa algerina, Mohammed al-Dairi avrebbe, infatti, affermato che, a
seguito dei bombardamenti russi in Siria, il flusso di foreign
fighters legati all’IS in arrivo in Libia sarebbe esponenzialmente
aumentato e che, a fronte di un’instabilità interna ormai endemica, il
Paese rischia di trasformarsi nella nuova base logistica dell’IS.
Grazie a condizioni favorevoli a livello
interno e d’area, la presenza delle milizie jihadiste in territorio
libico, ormai da molti mesi documentata, sarebbe, dunque, in espansione.
Oltre al controllo di Sirte e di alcune piccole enclavi nelle
zone centrali del Paese, l’IS manterrebbe, nonostante il conflitto di
giugno con gruppi jihadisti locali che obbligò il movimento ad arretrare
in maniera significativa, una presenza stabile alle porte di Derna,
città portuale del nord-est libico. Sarebbero, inoltre, presenti cellule
attive nelle città principali come Benghazi e Tripoli e, grazie alla porosità dei confini nazionali, sempre maggiore sarebbe il flusso di
militanti e armi in ingresso e in uscita dal Paese. La mancanza
di uno Stato centrale stabile e la frammentazione del controllo
territoriale avrebbe, infatti, consentito allo Stato Islamico libico di
diventare nucleo centrale di una rete di alleanze con altri gruppi
dell’area come Boko Haram (ora ISWA-Islamic State Western Africa) o
Morabituon (ala dissidente di AQIM-Al Qaeda nel Maghreb Islamico,
confluita nello Stato Islamico) che, in Libia, avrebbero trovato una
base di coordinamento per le proprie azioni nell’area.
L’instabilità libica che, per molti
mesi, è stata considerata la prima causa degli ingenti flussi migratori
verso l’Europa, aprendo a discussioni di ampio raggio sul pattugliamento
dei confini e su eventuali interventi tesi a bloccare le partenze è
tornata, dunque, ad essere centrale nelle analisi perché considerata la
principale barriera all’opera di contrasto dell’avanzata dei gruppi
facenti riferimento ad Al Baghdadi. Il timore che l’IS, grazie
all’arrivo di nuovi militanti ed all’effetto emulativo conseguente agli
attentati parigini, possa prendere il controllo di una parte consistente
del territorio libico, induce a premere sui Governi di Tripoli e Tobruk
perché trovino un accordo per un Governo di unità nazionale e varino
piani di intervento coordinato di contrasto allo Stato Islamico.
In questo senso si leggano sia l’invito del nuovo inviato delle Nazioni
Unite Martin Kobler perchè la bozza di accordo, senza nuove modifiche,
venga firmata dalle due parti al più presto, sia il progetto di colloqui
“Libia-Libia”, svincolato dall’egida ONU. La crescente disillusione
rispetto all’imparzialità della mediazione ONU a seguito dello scandalo
dell’assunzione dell’ex inviato ONU Bernardino Leon presso l’Accademia
diplomatica degli Emirati Arabi ad Abu Dhabi, ha, infatti, portato ad un
tentativo di mediazione tra i due Governi, guidato da una delegazione
della città di Jadu, che prevederebbe la creazione di un consiglio
legislativo comune il cui compito consisterebbe nel nominare, in
seguito, un Governo ad interim.
L’attenzione sul destino della
Libia e la centralità data alla necessità di accordo tra i due Governi,
nasconde, però, parte della complessità della questione libica e molte
delle responsabilità internazionali nell’attuale condizione di
instabilità. Per quanto riguarda il primo aspetto i due Governi
di stanza a Tripoli e Tobruk e lo Stato Islamico rappresentano solo
alcune delle forze in campo alle quali devono essere aggiunti altri
attori di fondamentale importanza. La disarticolazione delle strutture
statuali ha, infatti, lasciato spazio alla prolificazione di gruppi
armati minori nelle aree periferiche con la recrudescenza di conflitti
pregressi come, ad esempio, nel caso di Tuareg e Tebu nel Fezzan.
Rispetto alle responsabilità
internazionali, invece, l’attenzione posta in questi ultimi giorni
all’azione armata fallimentare per la destituzione del Colonnello
Gheddafi, non restituisce la reale dimensione dell’investimento
internazionale nelle questioni libiche. Prescindendo da casi eclatanti
come quello dell’ex inviato ONU Bernardino Leon, accusato di conflitto
di interessi per aver sostenuto gli interessi degli Emirati Arabi Unit
(EAU) in Libia ed aver, per questo, ottenuto un rilevante incarico ad
Abu Dhabi, molti soggetti internazionali, privati e statuali, hanno
avuto un ruolo di armamento e finanziamento delle diverse milizie. Al
fine di tutelare la sicurezza degli investimenti internazionali,
perlopiù nell’ambito degli idrocarburi, sono, infatti, stati sostenuti e
finanziati soggetti diversi che, in una data fase, avessero la capacità
di controllare adeguatamente il territorio. Questo ha portato
ad un inasprimento degli scontri, favorendo una sempre maggiore
frammentazione della società libica, chiudendo ogni possibilità di
risoluzione interna del conflitto e lasciando sempre maggiore terreno
all’avanzata dei gruppi jiahadisti in generale e dello Stato Islamico in
particolare.
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