di Michele Paris
La risposta del governo francese agli attentati terroristici di
venerdì scorso a Parigi sembra prevedere quasi esclusivamente
un’accelerazione delle iniziative già in corso da oltre un anno per
combattere lo Stato Islamico in territorio iracheno e siriano. Sul
fronte internazionale, infatti, il presidente Hollande ha autorizzato da
subito un’intensificazione dei fin qui inutili bombardamenti sulla
presunta capitale del “califfato”, Raqqa, nel nord della Siria.
Sul
suolo domestico, invece, Parigi sta preparando un altro giro di vite
sulle libertà civili e i diritti democratici per prevenire nuovi
attacchi da parte di individui radicalizzati che, come confermano le
identità dei responsabili dei recenti episodi di sangue, quasi sempre
trovano già posto negli archivi delle forze di sicurezza transalpine.
A
partire da domenica sera, come è noto, i jet francesi hanno iniziato a
operare bombardamenti sulle postazioni dell’ISIS a Raqqa partendo da
basi militari negli Emirati Arabi Uniti e in Giordania. Le operazioni
sono coordinate con gli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama ha
fatto sapere che i raid saranno ulteriormente intensificati nelle
prossime settimane.
Le notizie di incursioni più frequenti nei
territori controllati dall’ISIS è stata diffusa in varie occasioni
dall’inizio della nuova campagna mediorientale promossa da Washington
nell’estate del 2014, salvo poi concretizzarsi tutt’al più in perdite
modeste e tutt’altro che determinanti per i fondamentalisti guidati da
al-Baghdadi.
Lo sdegno internazionale per i fatti di Parigi, che
fanno seguito a quelli, decisamente meno condannati da media e governi
occidentali, del velivolo commerciale russo abbattuto sul Sinai e della
strage di civili sciiti a Beirut, potrebbe essere sfruttato sia per
arrivare a un’invasione di terra della Siria sia per fare pressioni
sulla Russia a unirsi alla coalizione “anti-ISIS” e a scaricare
finalmente il presidente Assad.
La prima ipotesi sembra essere
lontana dai pensieri della Casa Bianca o dell’Eliseo, ma influenti
sezioni della classe dirigente, non solo americana, continuano a
spingere per una soluzione di questo genere. Molto più chiara è al
contrario la volontà di questi governi e dei loro alleati di provare a
forzare l’allineamento di Mosca ai loro obiettivi strategici, uno sforzo
diventato meno complicato - almeno dal loro punto di vista - dopo i 129
morti di Parigi.
Il teatro di queste manovre è stato il G-20 di
Antalya, in Turchia, prevedibilmente dominato dagli attentati di
venerdì. Obama e Putin hanno tenuto un faccia a faccia informale per più
di mezz’ora, definito “costruttivo” dalla Casa Bianca. L’incontro è
stato accompagnato da un coro di dichiarazioni di vari leader impegnati a
chiedere alla Russia di concentrarsi sulla lotta all’ISIS invece di
prendere di mira le formazioni anti-Assad “moderate”.
Considerando
anche che in un paio di mesi l’intervento militare legale della Russia
in Siria ha assestato maggiori danni all’ISIS e alle altre
organizzazioni fondamentaliste, che spesso coincidono con quelle
definite “moderate” dall’Occidente, il forcing su Putin di questi giorni
ha evidentemente come obiettivo lo sganciamento di Mosca dal regime di
Damasco.
Ciò giunge sulla scorta dell’accordo raggiunto sabato a
Vienna su una generica “road map” per un cessate il fuoco e una
transizione politica in Siria. Tutte le parti convenute nella capitale
austriaca sono sembrate condividere il piano di una Siria unitaria e
non-settaria, così come il processo che dovrebbe portare a una nuova
Costituzione e a elezioni entro 18 mesi. Il punto su cui rimane il muro
contro muro è il ruolo di Assad, ovvero, al di là della sorte personale
del presidente, quale orientamento strategico dovrà avere il governo che
potrebbe sorgere nel prossimo futuro a Damasco.
I propositi
occidentali di unità nella lotta ai terroristi in Siria sono stati
ribaditi dallo stesso Putin, anche se, nel concreto, le posizioni
restano distanti, visto che la categoria nella quale sono classificati i
gruppi integralisti adottata dalla Russia non ha gli stessi contorni di
quella di Washington, Londra o Parigi.
Nonostante
la retorica di dichiarazioni che sollecitano misure più incisive per
combattere l’ISIS, qualsiasi iniziativa militare che verrà eventualmente
adottata in relazione alla Siria continuerà ad avere come reale
obiettivo la rimozione del regime di Assad. Se il governo francese e i
suoi alleati vedono con ovvia apprensione il diffondersi del rischio
attentati in Europa, non saranno di certo i morti di Parigi a far
cambiare i loro calcoli strategici in Siria.
Sulle formazioni
jihadiste, Parigi come Washington o Londra, per non parlare di Ankara e
Riyadh, hanno investito enormemente con l’obiettivo di abbattere il
regime di Damasco, mettendo in conto la possibilità di “effetti
collaterali” sotto forma di attentati terroristici entro i propri
confini. All’interno di un panorama strategico di questo genere, dunque,
risulta estremamente improbabile l’abbattimento del rischio terrorismo,
visto che l’Occidente intende accelerare le stesse politiche che lo
hanno generato.
Dal G-20 sono uscite comunque varie promesse da
parte dei leader che vi hanno partecipato per dare l’impressione di
voler combattere più efficacemente il rischio terrorismo, tra cui quelle
di incrementare la condivisione di informazioni di intelligence, di
rafforzare i controlli alle frontiere in Europa e, la più improbabile di
tutte, di interrompere i canali di finanziamento dei jihadisti.
L’altra
questione emersa inevitabilmente subito dopo la strage di venerdì è la
riproposizione delle misure da stato di polizia della stessa natura di
quelle già implementate più volte nell’ultimo decennio e che, a rigor di
logica, sono da considerarsi inutili per i fini dichiarati
ufficialmente. Infatti, com’è accaduto in maniera puntuale con i
precedenti episodi riconducibili al terrorismo internazionale, in
Francia e non solo, praticamente in ogni occasione i responsabili erano
già ben noti ai servizi segreti o alle forze di polizia.
Il
processo di radicalizzazione di molti giovani musulmani, non solo
francesi, avvenuto in Siria, è stato seguito con estrema attenzione dai
servizi segreti occidentali, visto che, almeno per i primi anni del
conflitto, l’obiettivo di questi individui e dei governi dei paesi da
dove provenivano, vale a dire la guerra contro Assad, coincideva alla
perfezione.
Se gli attentatori erano perciò più o meno tenuti
sotto controllo da organi dello stato dotati di facoltà quasi illimitate
nell’ambito della sorveglianza, è legittimo chiedersi quali altri
poteri sarà necessario attribuire alle forze di sicurezza per prevenire
ulteriori attentati. Ciò appare tanto più inquietante alla luce dei
contorni dell’operazione suicida di Parigi, condotta non da terroristi
improvvisati o “lupi solitari” difficili da individuare, bensì da team
altamente addestrati, ben armati e finanziati e con collegamenti
all’estero, in grado di pianificare con attenzione la strage.
Il
governo del presidente Hollande e del primo ministro, Manuel Valls, ha
in ogni caso deciso lo stato di emergenza e si appresta a chiedere un
cambiamento della legge francese per prolungarne drasticamente la
durata. La sospensione di alcuni diritti costituzionali tramite questo
strumento è basata su una legge del 1955, adottata nell’ambito della
guerra d’Algeria, e prevede una durata di non più di dodici giorni. Il
governo di Parigi intende invece prolungarla di ben tre mesi e mercoledì
preparerà un disegno di legge che sarà poi presentato e votato in
Parlamento.
Tra le misure autorizzate dallo stato di emergenza vi
sono la possibilità di mettere in atto alcuni provvedimenti
anti-democratici in maniera arbitraria, come perquisizioni in abitazioni
private, coprifuoco, controllo della stampa, arresti, chiusura di
luoghi ed edifici pubblici, stop alle manifestazioni di piazza.
In
un intervento di fronte ai due rami del Parlamento a Versailles con
pochissimi precedenti storici, lunedì Hollande ha lanciato un appello a
unire le forze per combattere l’ISIS, aggiungendo sinistramente che la
Francia è “in guerra” contro il terrorismo jihadista.
Tutto
il legittimo sdegno per i fatti di sangue di venerdì scorso, così come i
proclami e le iniziative del governo francese, non possono ad ogni modo
far dimenticare il contesto in cui sono avvenuti gli attentati e le
responsabilità per la creazione del clima tossico che si respira in
Europa di riflesso dalle crisi che attraversano il Medio Oriente.
I
governi occidentali, con quello di Parigi in prima fila, a fronte della
retorica della “guerra al terrore”, dietro le quinte hanno coltivato e
continuano a coltivare forze islamiste ultra-reazionarie e violente per
promuovere i loro interessi strategici, come il cambio di regime in
paesi come Libia e, ora, Siria.
Questi gruppi integralisti
mantengono rapporti a dir poco ambigui con le intelligence occidentali,
le quali contribuiscono allo sforzo di armarli, finanziarli e
addestrarli assieme ai regimi dittatoriali del mondo arabo, alimentando
violenze e atrocità nei teatri di guerra mediorientali e, allo stesso
tempo, fornendo la giustificazione per interventi militari diretti in
una spirale di violenza senza fine che, sempre più, sembra trovare
drammaticamente eco anche nelle capitali occidentali.
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