Tra le letture dell’attentato parigino del 13 novembre ne manca all’appello sostanzialmente una. Quella legata alla dimensione economico-finanziaria di Isis al di fuori, ovviamente, di dietrologie, complottismi e categorie di lettura ferme all’epoca della guerra fredda.
Diciamo che, grazie a questa lettura,
possiamo anche guardare ad un attentato di venerdì come ad un evento che
avviene a borse chiuse, in modo da dare ai mercati il tempo di
metabolizzare i fatti. Le reazioni dei mercati finanziari, subito dopo
l’attentato, sono state comunque nelle previsioni, nella norma di quanto
può accadere dopo eventi come quello parigino. Anche perché, uno
strumento forte di destabilizzazione dei mercati finanziari che Isis ha
in mano, l’aumento repentino del prezzo del petrolio a causa della
distruzione di pozzi in Iraq, non è mai stato utilizzato (nonostante gli
allarmi di Bloombergview). E si parla di uno strumento che,
dall’autunno del 2014, ad Isis rende meno a causa del forte calo del
prezzo del petrolio. Eppure sembra proprio che le regole attuali del
mercato del greggio, tenere basso il prezzo, e quelle della finanza, in
alcuni casi preoccuparsi di far metabolizzare gli choc ai mercati,
valgano anche per lo stato islamico. Si badi bene, del mercato del
greggio non dell’Arabia Saudita. Perché dall’inizio del 2015 la
separazione di interessi tra Isis e Arabia Saudita, per quanto da più
fonti si rilevino finanziamenti sauditi e qatarioti a Isis, viene
ratificata da un articolo del Financial Times: Saudi Arabia: Threat from Isis will only grow (gennaio 2015).
Così possiamo dire che proprio perché vige il regime di financial warfare, lo stato di guerra
finanziario, fenomeno diversificato e presente nei mercati, che può
portare grossi profitti come nel caso dell’attacco al rublo dello scorso
anno (costato importanti riserve estere alla banca centrale russa), non
è affatto detto che questo si manifesti automaticamente nel momento in
cui accade un attentato epocale. Allo stesso tempo, al
contrario, la reazione della Federal Reserve americana dopo l’attentato
alle torri gemelle fu di quelli epocali. Si era appena alla fine dello
scoppio della bolla dei titoli tecnologici e, al momento del crollo
delle torri fu presa la seguente decisione: il 17 settembre del 2001,
l’allora presidente della Fed Alan Greenspan, decise un repentino taglio
dei tassi di interesse. Generando, nel breve periodo, quell’aumento dei
consumi, spinti dai tassi bassi, necessario al clima politico di un
paese che andava alla guerra, e a quello di una borsa che aveva
necessità di liquidità per tornare a gonfiarsi. Ma anche generando, nel
medio periodo e proprio grazie alla dinamica di tassi bassi aperta nel
2001, quella bolla finanziaria che ha fatto esplodere non solo Lehman
Brothers ma anche il sistema finanziario ed economico globale. Un caso da
manuale di atto di guerra non convenzionale, la distruzione delle torri
gemelle, col tempo ha così generato un caso da manuale di distruzione
di capitali, Lehman Brothers, oggi studiato nelle simulazioni di guerra
finanziaria.
Eppure Al-Qaeda è stimata avere da un decimo ad un ventesimo della potenza economico-finanziaria di Isis.
Quando si dice che, per far effetto nel campo della finanza cioè quello
del comando capitalistico, bisogna fare l’attentato giusto al momento
giusto. Ma, soprattutto, quando si dice che per capire le guerre oggi, la
doppia dimensione, quella sul campo e quella finanziaria, risulta
essenziale. Isis, fino ad ora, è stata devastante sul campo quanto
ininfluente sui mercati. Al-Qaeda, a suo tempo, con un attentato costato
poche decine di migliaia di dollari, e un organizzazione low-cost, ha
provocato una decisione storica della banca centrale americana forzando
la politica monetaria americana in modo tale da creare effetti
collaterali negli anni. Isis, invece, arma un esercito, finanzia uno
stato ma non crea questi effetti. Perché deve navigare tra i conflitti
finanziari per vincere quello sul campo. Mentre Al-Qaeda, con la
centralità dell'evento spettacolare e con un'idea di guerriglia che non
si sostanzia in uno stato, è diventata periferica sia sul campo che sul
piano finanziario.
Un’altra differenza, sul piano
della raccolta fondi, tra Al-Qaeda e Isis sta nella capacità di
quest’ultima organizzazione di raccoglie risorse (dai “donatori”, allo
sfruttamento intensivo dei territori occupati, all’investimento
economico e finanziario) in modo centralizzato e gerarchico.
Insomma, Isis pratica l’accorpamento dei capitali dove Al-Qaeda pratica
ancora oggi lo sfruttamento della concessione del marchio a diversi
gruppi che, a loro volta, devono essere dotati di autonomia finanziaria.
E’ evidente che, fino ad oggi, la centralizzazione della gestione dei
capitali del più grande gruppo, dal punto di vista finanziario,
terrorista di sempre non può che comportare un certo atteggiamento
pro-ciclico nei confronti dei mercati finanziari. Un gruppo terroristico
che si fa stato non è un hedge fund: altrimenti ciò che oggi è forza,
la ricchezza finanziaria, domani potrebbe essere azzerato con
investimenti sbagliati o con improvvisi cambiamenti del mercato. E qui
c’è un grosso cambiamento in Isis, rispetto ad altri gruppi del passato,
che le vecchie categorie da guerra fredda o da geopolitica del primo
novecento non riescono a vedere. Isis non è il classico gruppo
dipendente dai finanziamenti di uno stato straniero, eterodiretto dai
servizi di qualche fratello maggiore. Nonostante riceva finanziamenti di
ogni tipo, nonostante sia in dialettica coi servizi segreti (americano,
israeliano, turco, saudita ad esempio) proprio economicamente, e quindi
materialmente, marca la propria novità ed autonomia. Isis, infatti,
opera in fund raising da molteplici fonti e livelli e in autonomia
finanziaria. Secondo Louise Shelley, che ha scritto un importante testo
sulle economie terroristiche, lo stato islamico ha un proprio ed
autoreferenziale sistema di business:
Sistema che funziona proprio nella
centralizzazione di diversificati, tradizionali e non, sistemi di
raccolta fondi. Fino a generare una economia propria di tutto questo
sistema. Ed è dai rapporti o meno, di questo sistema economico del
business terrorism dello stato islamico, con altre entità economiche e
finanziarie che si capisce quanto Isis sia autonomo o meno. Si tratta di
un criterio di misurazione, quello dell'autonomia finanziaria, magari
mutevole ma ineludibile per capire Isis.
Non è quindi un caso che ci
siano analisti che sostengono che la guerra finanziaria ad Isis sia una
priorità strategica ma, allo stesso tempo, che proprio grazie
all’estrema complessità già raggiunta dal sistema economico di Isis non
sarà facile portarla avanti.
Questo perché è già avvenuta la
saldatura di Isis con un altro fenomeno. Quello descritto da un testo
interessante come quello di Colin Clarke, Terrorism, Inc.: The Financing of Terrorism, Insurgency, and Irregular Warfare (2014, Praeger Security International).
Stiamo parlando della capacità, da parte del business terrorism,
descritta da Clarke di saper entrare direttamente in connessione con le
evoluzioni del banking globale e della finanza, con l’ubiquità delle
tecnologie della comunicazione e con le miriadi di forme di
trasferimento digitale della ricchezza. Isis, nel testo di Clarke, è il
prodotto maturo di questo processo di messa in connessione. Un processo
che, nel testo, comincia con l’IRA degli anni '70, passa per Hamas e
trova un modello complesso di maturazione in Isis. E’ così evidente che
analizzare lo scenario siriano e iracheno con le sole categorie della
geopolitica e degli interessi degli stati non basta. Specie quando
entrano in campo fenomeni – come il banking e la finanza globali – che
bypassano quando non dominano gli stati tradizionali. I maestri della
teoria della guerra contemporanea dicono: il campo è sempre meno
decisivo per determinare gli esiti di un conflitto. Altri fattori, primo
fra tutti quello finanziario, risultano invece sempre più determinanti.
Isis rappresenta così un bel banco di prova per queste teorie.
Ma capire complessivamente lo
scenario, dove guerra sul campo e guerra finanziaria si tengono, non è
difficile solo per gli analisti. Anche negli Usa, ad esempio, i due
settori sono scarsamente integrati. Nonostante la guerra finanziaria
al terrorismo sia già stata lanciata da Bush proprio all’indomani
dell’attacco alle torri gemelle. Basta ricordare che, ancora
nel 2009 poco dopo Lehman, il Pentagono, secondo diverse testimonianze
pubbliche, non disponeva di war games che riguardavano la finanza. I
motivi di questo atteggiamento, non solo Usa, vanno cercati in tante
cause, non ultimo che la sfera del comando in ultima istanza, la
finanza, ha sempre amato la discrezione. Ma vanno cercati anche in
categorie e pratiche del politico sempre molto tradizionali legate a
schemi della guerra in campo aperto. Quelle, insomma, del conflitto in
ultima istanza determinato dalla geografia, dalle masse umane e dal
cumulo di armi che, in questi ultimi anni hanno però subito sostanziali
revisioni. Eppure oggi, con l’annuncio della creazione di una banca
centrale da parte di Isis e con l’adozione del gold standard all’interno
dello stato islamico, le due dimensioni – guerra finanziaria e
convenzionale – finiscono per toccarsi. Ma paradossalmente nei termini
meno immaginati: come ha notato giustamente John Cassara (in Trade-Based Money Laundering: The Next Frontier in International Money Laundering Enforcement, Whiley 2015)
veterano dell’intelligence federale, l’adozione dell’oro da parte di
gruppi come Isis avviene nel desiderio di agganciarsi a un bene
universalmente riconosciuto e stabile nel prezzo. Un atteggiamento
paradossalmente antispeculativo, e stabilizzatore del mercato, da parte di
chi, in effetti, può morire delle oscillazioni del mercato finanziario
non avendo dietro la protezione legale di uno stato. Paradossalmente
fino ad un certo punto: come dicevamo uno stato che si vuole nascente
non può essere un hedge-fund.
Del resto Isis, al momento della
notizia del lancio del dinaro d’oro, ha rilasciato un video di propaganda
contro la speculazione finanziaria globale basata sul sistema dei
“soldi che si fanno con i soldi”.
Insomma, la consueta propaganda dai toni
anticoloniali, che Isis non ha mai dismesso, assieme alla costruzione
di un prodotto, il dinaro d’oro, che si pensa un po' come bene e brand
rifugio per investimenti di qualità (anche se l’oro non ha brillato in
performace ultimamente).
Un blog che si occupa di intelligence (Treat Brief) ha parlato esplicitamente di Isis, come il più grande fenomeno di business terrorism mai esistito. Un interessante articolo collettivo Funding Terror, sul Pennsylvania Law Review,
ha parlato di shell company (società veicolo per far passare prodotti
finanziari e non di ogni genere) come strumento favorito per questo
genere di business terrorism. E' dal comportamento dell'economia dello
stato islamico, dai suoi livelli di integrazione con l'economia, dagli
itinerari delle shell company che si comprende quanto, se e come, guerra
finanziaria e guerra convenzionale in questo caso si saldino. Quanto
tenga la struttura materiale di Isis e come possa dispiegarsi quella
finanziaria anche in caso di significative ritirate dello stato
islamico. Di sicuro al G20 si è firmato un protocollo proprio dedicato
al controllo di questi temi. Quanto si tratti di propaganda, quanto di
vuota forma legale e quanto di materialità lo si capirà col tempo.
Certamente si aprirebbe un nuovo terreno, quello di denuncia della
finanza globale, vedi testo di Colin Clarke, come acqua per i pesci per
fenomeni come Isis. Terreno che farebbe uscire dalla penombra tutto un
mondo, dove convivono stati e rogue states, che è il vero gigantesco
nodo delle criticità globali. Del resto questo è un secolo che apre
continuamente nuovi terreni per il politico e per la politica.
Maggiormente complesso che nel passato ma, del resto, la politica è
continuo salto di complessità.
Redazione, 18 novembre 2015
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