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19/11/2015

Isis e la guerra finanziaria

Tra le letture dell’attentato parigino del 13 novembre ne manca all’appello sostanzialmente una. Quella legata alla dimensione economico-finanziaria di Isis al di fuori, ovviamente, di dietrologie, complottismi e categorie di lettura ferme all’epoca della guerra fredda.

Diciamo che, grazie a questa lettura, possiamo anche guardare ad un attentato di venerdì come ad un evento che avviene a borse chiuse, in modo da dare ai mercati il tempo di metabolizzare i fatti. Le reazioni dei mercati finanziari, subito dopo l’attentato, sono state comunque nelle previsioni, nella norma di quanto può accadere dopo eventi come quello parigino. Anche perché, uno strumento forte di destabilizzazione dei mercati finanziari che Isis ha in mano, l’aumento repentino del prezzo del petrolio a causa della distruzione di pozzi in Iraq, non è mai stato utilizzato (nonostante gli allarmi di Bloombergview). E si parla di uno strumento che, dall’autunno del 2014, ad Isis rende meno a causa del forte calo del prezzo del petrolio. Eppure sembra proprio che le regole attuali del mercato del greggio, tenere basso il prezzo, e quelle della finanza, in alcuni casi preoccuparsi di far metabolizzare gli choc ai mercati, valgano anche per lo stato islamico. Si badi bene, del mercato del greggio non dell’Arabia Saudita. Perché dall’inizio del 2015 la separazione di interessi tra Isis e Arabia Saudita, per quanto da più fonti si rilevino finanziamenti sauditi e qatarioti a Isis, viene ratificata da un articolo del Financial Times: Saudi Arabia: Threat from Isis will only grow (gennaio 2015).

Così possiamo dire che proprio perché vige il regime di financial warfare, lo stato di guerra finanziario, fenomeno diversificato e presente nei mercati, che può portare grossi profitti come nel caso dell’attacco al rublo dello scorso anno (costato importanti riserve estere alla banca centrale russa), non è affatto detto che questo si manifesti automaticamente nel momento in cui accade un attentato epocale. Allo stesso tempo, al contrario, la reazione della Federal Reserve americana dopo l’attentato alle torri gemelle fu di quelli epocali. Si era appena alla fine dello scoppio della bolla dei titoli tecnologici e, al momento del crollo delle torri fu presa la seguente decisione: il 17 settembre del 2001, l’allora presidente della Fed Alan Greenspan, decise un repentino taglio dei tassi di interesse. Generando, nel breve periodo, quell’aumento dei consumi, spinti dai tassi bassi, necessario al clima politico di un paese che andava alla guerra, e a quello di una borsa che aveva necessità di liquidità per tornare a gonfiarsi. Ma anche generando, nel medio periodo e proprio grazie alla dinamica di tassi bassi aperta nel 2001, quella bolla finanziaria che ha fatto esplodere non solo Lehman Brothers ma anche il sistema finanziario ed economico globale. Un caso da manuale di atto di guerra non convenzionale, la distruzione delle torri gemelle, col tempo ha così generato un caso da manuale di distruzione di capitali, Lehman Brothers, oggi studiato nelle simulazioni di guerra finanziaria.

Eppure Al-Qaeda è stimata avere da un decimo ad un ventesimo della potenza economico-finanziaria di Isis. Quando si dice che, per far effetto nel campo della finanza cioè quello del comando capitalistico, bisogna fare l’attentato giusto al momento giusto. Ma, soprattutto, quando si dice che per capire le guerre oggi, la doppia dimensione, quella sul campo e quella finanziaria, risulta essenziale. Isis, fino ad ora, è stata devastante sul campo quanto ininfluente sui mercati. Al-Qaeda, a suo tempo, con un attentato costato poche decine di migliaia di dollari, e un organizzazione low-cost, ha provocato una decisione storica della banca centrale americana forzando la politica monetaria americana in modo tale da creare effetti collaterali negli anni. Isis, invece, arma un esercito, finanzia uno stato ma non crea questi effetti. Perché deve navigare tra i conflitti finanziari per vincere quello sul campo. Mentre Al-Qaeda, con la centralità dell'evento spettacolare e con un'idea di guerriglia che non si sostanzia in uno stato, è diventata periferica sia sul campo che sul piano finanziario.

Un’altra differenza, sul piano della raccolta fondi, tra Al-Qaeda e Isis sta nella capacità di quest’ultima organizzazione di raccoglie risorse (dai “donatori”, allo sfruttamento intensivo dei territori occupati, all’investimento economico e finanziario) in modo centralizzato e gerarchico. Insomma, Isis pratica l’accorpamento dei capitali dove Al-Qaeda pratica ancora oggi lo sfruttamento della concessione del marchio a diversi gruppi che, a loro volta, devono essere dotati di autonomia finanziaria. E’ evidente che, fino ad oggi, la centralizzazione della gestione dei capitali del più grande gruppo, dal punto di vista finanziario, terrorista di sempre non può che comportare un certo atteggiamento pro-ciclico nei confronti dei mercati finanziari. Un gruppo terroristico che si fa stato non è un hedge fund: altrimenti ciò che oggi è forza, la ricchezza finanziaria, domani potrebbe essere azzerato con investimenti sbagliati o con improvvisi cambiamenti del mercato. E qui c’è un grosso cambiamento in Isis, rispetto ad altri gruppi del passato, che le vecchie categorie da guerra fredda o da geopolitica del primo novecento non riescono a vedere. Isis non è il classico gruppo dipendente dai finanziamenti di uno stato straniero, eterodiretto dai servizi di qualche fratello maggiore. Nonostante riceva finanziamenti di ogni tipo, nonostante sia in dialettica coi servizi segreti (americano, israeliano, turco, saudita ad esempio) proprio economicamente, e quindi materialmente, marca la propria novità ed autonomia. Isis, infatti, opera in fund raising da molteplici fonti e livelli e in autonomia finanziaria. Secondo Louise Shelley, che ha scritto un importante testo sulle economie terroristiche, lo stato islamico ha un proprio ed autoreferenziale sistema di business:


Sistema che funziona proprio nella centralizzazione di diversificati, tradizionali e non, sistemi di raccolta fondi. Fino a generare una economia propria di tutto questo sistema. Ed è dai rapporti o meno, di questo sistema economico del business terrorism dello stato islamico, con altre entità economiche e finanziarie che si capisce quanto Isis sia autonomo o meno. Si tratta di un criterio di misurazione, quello dell'autonomia finanziaria, magari mutevole ma ineludibile per capire Isis.
Non è quindi un caso che ci siano analisti che sostengono che la guerra finanziaria ad Isis sia una priorità strategica ma, allo stesso tempo, che proprio grazie all’estrema complessità già raggiunta dal sistema economico di Isis non sarà facile portarla avanti.


Questo perché è già avvenuta la saldatura di Isis con un altro fenomeno. Quello descritto da un testo interessante come quello di Colin Clarke, Terrorism, Inc.: The Financing of Terrorism, Insurgency, and Irregular Warfare (2014, Praeger Security International). Stiamo parlando della capacità, da parte del business terrorism, descritta da Clarke di saper entrare direttamente in connessione con le evoluzioni del banking globale e della finanza, con l’ubiquità delle tecnologie della comunicazione e con le miriadi di forme di trasferimento digitale della ricchezza. Isis, nel testo di Clarke, è il prodotto maturo di questo processo di messa in connessione. Un processo che, nel testo, comincia con l’IRA degli anni '70, passa per Hamas e trova un modello complesso di maturazione in Isis. E’ così evidente che analizzare lo scenario siriano e iracheno con le sole categorie della geopolitica e degli interessi degli stati non basta. Specie quando entrano in campo fenomeni – come il banking e la finanza globali che bypassano quando non dominano gli stati tradizionali. I maestri della teoria della guerra contemporanea dicono: il campo è sempre meno decisivo per determinare gli esiti di un conflitto. Altri fattori, primo fra tutti quello finanziario, risultano invece sempre più determinanti. Isis rappresenta così un bel banco di prova per queste teorie.

Ma capire complessivamente lo scenario, dove guerra sul campo e guerra finanziaria si tengono, non è difficile solo per gli analisti. Anche negli Usa, ad esempio, i due settori sono scarsamente integrati. Nonostante la guerra finanziaria al terrorismo sia già stata lanciata da Bush proprio all’indomani dell’attacco alle torri gemelle. Basta ricordare che, ancora nel 2009 poco dopo Lehman, il Pentagono, secondo diverse testimonianze pubbliche, non disponeva di war games che riguardavano la finanza. I motivi di questo atteggiamento, non solo Usa, vanno cercati in tante cause, non ultimo che la sfera del comando in ultima istanza, la finanza, ha sempre amato la discrezione. Ma vanno cercati anche in categorie e pratiche del politico sempre molto tradizionali legate a schemi della guerra in campo aperto. Quelle, insomma, del conflitto in ultima istanza determinato dalla geografia, dalle masse umane e dal cumulo di armi che, in questi ultimi anni hanno però subito sostanziali revisioni. Eppure oggi, con l’annuncio della creazione di una banca centrale da parte di Isis e con l’adozione del gold standard all’interno dello stato islamico, le due dimensioni – guerra finanziaria e convenzionale finiscono per toccarsi. Ma paradossalmente nei termini meno immaginati: come ha notato giustamente John Cassara (in Trade-Based Money Laundering: The Next Frontier in International Money Laundering Enforcement, Whiley 2015) veterano dell’intelligence federale, l’adozione dell’oro da parte di gruppi come Isis avviene nel desiderio di agganciarsi a un bene universalmente riconosciuto e stabile nel prezzo. Un atteggiamento paradossalmente antispeculativo, e stabilizzatore del mercato, da parte di  chi, in effetti, può morire delle oscillazioni del mercato finanziario non avendo dietro la protezione legale di uno stato. Paradossalmente fino ad un certo punto: come dicevamo uno stato che si vuole nascente non può essere un hedge-fund.

Del resto Isis, al momento della notizia del lancio del dinaro d’oro, ha rilasciato un video di propaganda contro la speculazione finanziaria globale basata sul sistema dei “soldi che si fanno con i soldi”.


Insomma, la consueta propaganda dai toni anticoloniali, che Isis non ha mai dismesso, assieme alla costruzione di un prodotto, il dinaro d’oro, che si pensa un po' come bene e brand rifugio per investimenti di qualità (anche se l’oro non ha brillato in performace ultimamente).

Un blog che si occupa di intelligence (Treat Brief) ha parlato esplicitamente di Isis, come il più grande fenomeno di business terrorism mai esistito. Un interessante articolo collettivo Funding Terror, sul Pennsylvania Law Review, ha parlato di shell company (società veicolo per far passare prodotti finanziari e non di ogni genere) come strumento favorito per questo genere di business terrorism. E' dal comportamento dell'economia dello stato islamico, dai suoi livelli di integrazione con l'economia, dagli itinerari delle shell company che si comprende quanto, se e come, guerra finanziaria e guerra convenzionale in questo caso si saldino. Quanto tenga la struttura materiale di Isis e come possa dispiegarsi quella finanziaria anche in caso di significative ritirate dello stato islamico. Di sicuro al G20 si è firmato un protocollo proprio dedicato al controllo di questi temi. Quanto si tratti di propaganda, quanto di vuota forma legale e quanto di materialità lo si capirà col tempo. Certamente si aprirebbe un nuovo terreno, quello di denuncia della finanza globale, vedi testo di Colin Clarke, come acqua per i pesci per fenomeni come Isis. Terreno che farebbe uscire dalla penombra tutto un mondo, dove convivono stati e rogue states, che è il vero gigantesco nodo delle criticità globali. Del resto questo è un secolo che apre continuamente nuovi terreni per il politico e per la politica. Maggiormente complesso che nel passato ma, del resto, la politica è continuo salto di complessità.

Redazione, 18 novembre 2015

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