Non deve essere considerato “un semplice atto di vendetta”, fanno
sapere alcuni analisti. Eppure la tempistica dei raid francesi su Raqqa,
iniziati ieri, è chiara: a meno di 48 ore dagli attentati simultanei
che hanno colpito Parigi, provocando 132 vittime e centinaia di feriti,
la rabbia dell’Eliseo è stata puntuale. Dieci caccia partiti in
contemporanea da Abu Dhabi e da Amman, decine di bombe sganciate sulla
roccaforte siriana dello Stato islamico, una serie di obiettivi centrati
in pieno: secondo il ministero della Difesa francese sono stati colpiti
un centro di comando, uno di addestramento, un deposito munizioni e una
struttura per il reclutamento dei miliziani jihadisti.
Raid che continueranno, stando a quanto rivelato questa mattina in
un’intervista radiofonica dal premier francese Manuel Valls, “fino a che
lo Stato islamico non sarà distrutto”, perché “i terroristi stanno
preparando altri attacchi contro la Francia e gli altri paesi europei”. A
coadiuvare i raid francesi, effettuati su quelli che l’Eliseo ha
descritto come “obiettivi individuati in precedenza”, ci sono le forze
aeree americane, che hanno fornito a Parigi le informazioni di
intelligence per guidare gli attacchi e identificare gli obiettivi. Da
Raqqa si parla di “bombardamenti a tappeto”, con oltre trenta raid
effettuati nella giornata di ieri e una ventina di bombe sganciate.
Ma gli attacchi di Parigi non hanno scosso solo le coscienze e i
caccia occidentali: dal summit di Vienna, dove sabato le principali
potenze mondiali si sono incontrate per decidere il futuro del paese,
dopo anni di disaccordi è nato una specie di accordo. O perlomeno
un calendario, sulla base del piano di pace russo, che fissa al primo
gennaio la data di un tavolo comune tra governo siriano e opposizioni,
anche se non si capisce quali.
L’incontro di sabato ha altresì fissato in agenda l’instaurazione di un governo
di transizione entro sei mesi ed elezioni tra 18 mesi, passi di un
processo politico che non accennano al destino di Bashar al Assad,
voluto da Russia e Iran ma rifiutato dal resto delle potenze mondiali.
Processo che “deve essere accompagnato da un cessate il fuoco tra le
parti – ha detto il segretario di Stato americano John Kerry – per
fermare al più presto possibile lo spargimento di sangue”.
Uno spargimento di sangue ora necessario da fermare in quanto
minaccia sempre di più l’Europa, che oltre a provocare flussi massicci
di migranti in provenienza dai conflitti mediorientali ora sembra
trasportare nel Vecchio Continente anche le modalità belliche utilizzate
per colpire i nemici nella regione. Non è un mistero che la
Francia si sia impegnata per la prima volta nei raid contro lo Stato
islamico a crisi dei migranti già conclamata, con l’Unione Europea che
aveva operato la ripartizione forzata delle quote di arrivi e la
cittadinanza francese che si era dichiara massicciamente contraria
all’accoglienza dei profughi.
Ora più che mai, però, cresce il bisogno di nuove strategie contro il
massiccio afflusso di rifugiati. E’ quanto è emerso dalle ultime
proposte fatte dalla comunità degli aiuti umanitari, con alcuni dei
paesi donatori impegnati in progetti innovativi in risposta al
fallimento dei tradizionali metodi di solidarietà. Come spiega un report
dell’Associated Press, infatti, sempre più paesi
stanno pensando di investire le quote destinate agli aiuti umanitari per
i profughi mediorientali in progetti di sviluppo nei paesi che
accolgono il maggior numero di rifugiati, come la Giordania e il Libano.
Una sorta di “Piano Marshall mediorientale”, proposto tra gli altri
dalla Banca Mondiale e dal Consiglio norvegese per i rifugiati, che
vedrebbe fluire miliardi di dollari nelle casse degli stati più
affollati della regione mediorientale per sviluppare l’economia e il
mercato del lavoro, in modo da includere anche i profughi. Una
risposta alla carenza di aiuti raccolti – quest’anno poco più di due
miliardi a fronte dei 4.5 chiesti dall’Onu – e alla crisi migratoria,
che permetterebbe ai rifugiati di ricostruirsi una vita degna e di non
campare con l’elemosina del mondo.
Ma gli stati ospitanti, cioè Libano e Giordania, già hanno espresso dubbi sulla proposta: schiacciati
da una disoccupazione alle stelle, Amman e Beirut hanno dichiarato che
non possono mettere a lavorare legalmente grandi numeri di rifugiati.
Integrarli, poi, sarebbe lo scalino più arduo da superare, soprattutto
in Libano: un paese che si regge su precari equilibri comunitari non
accetterà facilmente l’inclusione di centinaia di migliaia di siriani
nella propria economia, siriani che oltretutto sono ampiamente
discriminati da anni nel Paese dei Cedri. Non senza disastrose
conseguenze politiche e sociali.
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