di Giorgia Grifoni
E’ festa, a Teheran, nel
campo riformista. Con 92 seggi conquistati – secondo i risultati diffusi
ieri a spoglio terminato – a fronte dei 115 andati ai conservatori e 44
agli indipendenti, l’ala riformista torna a posizionarsi nella politica
iraniana. Non è però una vittoria totale: i risultati impressionanti
della capitale Teheran, dove tutti e 30 i seggi sono andati ai moderati,
non sono stati ripetuti nel resto del paese. E ci sono ancora 39
poltrone da assegnare nel ballottaggio di fine aprile, dato che secondo
la legge elettorale iraniana i candidati devono ottenere almeno il 25
per cento dei consensi. Difficile fare previsioni certe sul reale
aspetto di questo nuovo Parlamento, ma una cosa è certa: per Maziyar
Ghiabi, ricercatore in scienze politiche e Medio Oriente all’Università
di Oxford, si tratta di “un risultato politico che premia, nonostante
tutti gli ostacoli, il governo di Rouhani, e reintegra cautamente il
riformismo nel discorso politico iraniano”. E non è mica poco.
Innanzitutto, balza agli occhi la sostanziale impotenza del Consiglio
dei Guardiani di fronte al rinnovato entusiasmo con il quale i
riformisti hanno partecipato a queste elezioni: l’organismo preposto al
controllo e all’ammissione dei candidati, composto da sei membri eletti
dal Parlamento e sei nominati dalla Guida Suprema, non è riuscito
infatti a filtrare fino in fondo le candidature, “permettendo” a 200
riformisti di partecipare al voto. Un risultato notevole, se si pensa
che, per esempio, alle ultime presidenziali era stato ammesso un solo
candidato riformista, Mohammed Reza Aref. “Un alto numero di candidati
riformisti è stato squalificato – spiega Ghiabi a Nena News – cosa che
ha fatto dire a qualche leader riformista di aver ‘vinto queste elezioni
con le mani legate dietro la schiena’. In questa istanza, però, sarebbe
stato molto rischioso rifiutare tutte le candidature riformiste perché
ciò avrebbe provocato un forte astensionismo, con conseguenti danni alla legittimità del sistema della Repubblica islamica”.
Salutato dalla stampa internazionale come un “plebiscito su Rouhani” e
sul nuovo corso moderato intrapreso dal presidente soprattutto dopo la
firma dell’accordo sul nucleare, il voto rimane sicuramente un punto di
svolta nella politica iraniana. Nonostante l’affluenza leggermente più
bassa rispetto al 2012 (62 contro 64 per cento degli aventi diritto), la
sua portata è innegabile. “Rispetto alle precedenti elezioni – spiega –
i cambiamenti si possono definire come importanti. All’intero
del paese cambia l’atmosfera politica, ci sarà meno ostracismo su
questioni sociali e potrebbero essere introdotte misure di rilassamento
su questioni civili. Quanto alla politica estera, il Parlamento
ha un ruolo importante sopratutto su questioni che toccano
l’indipendenza nazionale. Ma per il resto non cambierà molto, dato
che le politiche sono decise da organismi conciliari in cui tutte le
fazioni sono presenti, come il Consiglio di Sicurezza Nazionale e i
Comitati parlamentari sulla Politica Estera”.
Le riforme su cui l’ala riformista ha puntato tutto, però, non sembrano immediate: “Sono le stesse dei tempi di Khatami. In primis – continua Ghiyabi – cercare
di introdurre cambiamenti sull’eleggibilità dei candidati alle
elezioni, questione che oggi è decisa dal Consiglio dei Guardiani. Si
introdurranno anche riforme per facilitare gli investimenti privati ed
esteri, per rilassare le norme dello spazio pubblico. Ma in verità c’è
stata molta poca campagna elettorale, per cui il contenuto delle riforme
per ora rimane vago. Nell’immediato queste riforme si possono discutere ma ci vorrà tempo prima che vengano approvate e implementate”.
Soprattutto, ci vorrà tempo prima che si delineino degli schieramenti compatti nell’emiciclo.
A parte l’attesa per il ballottaggio di fine aprile a cui prenderanno
parte 33 riformisti, altrettanti conservatori e 44 indipendenti,
infatti, ci si chiede che tipo di ruolo avranno gli indipendenti. Non
bisogna dimenticare che in Iran un vero e proprio sistema
partitico non esiste: da qui la difficoltà a etichettare precisamente i
candidati per affiliazione e per il ruolo che avranno nelle scelte
legislative. “Ci sono molte correnti di pensiero all’interno dei
campi politici iraniani – precisa Ghiyabi – e le linee guida non sono
semplicemente morali/religiose, ma anche socio-economiche, regionali,
etc. Il Parlamento rappresenta anche istanze locali ed è eletto su base
territoriale, per cui in molti casi l’etichetta di conservatore o
riformista non ha senso. Trattasi di candidati che hanno il sostegno di
parte delle popolazioni locali e che portano istanze locali a livello
nazionale. Ciò significa che possono schierarsi liberamente su questioni
di altro tipo”.
Si è parlato molto in questi giorni del ritrovato ruolo dei
riformisti, ma le previsioni sulla portata del loro peso effettivo nella
nuova legislatura appaiono vaghe. Soprattutto per quel che riguarda
l’Assemblea degli Esperti, organismo preposto alla nomina della prossima
Guida Suprema. Secondo quanto riporta l’AP, dallo spoglio
sarebbe emerso che riformisti e conservatori moderati abbiano ottenuto
addirittura il 59 per cento degli 88 seggi dell’Assemblea. Se,
come prevede la stampa internazionale, nei prossimi 8 anni il 76enne Ali
Khamenei dovesse mancare o lasciare l’incarico, non è così scontato che
il suo posto venga dato all’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani,
ex presidente in passato vicinissimo a Khamenei ma di fatto allontanato
dalle alte sfere del potere per non aver mai condannato pubblicamente
le manifestazioni dell’Onda Verde. “La scelta della prossima Guida
Suprema – conclude – avverrà attraverso negoziati e discussioni che
sorpasseranno quelle dell’Assemblea degli Esperti. Dubito che possa
essere Rafsanjani che ha due anni in più dell’attuale leader. Io credo
che prevarranno le valutazioni politiche su quelle religiose, per cui
potremmo aspettarci una Guida Suprema che sia capace di ricoprire il
ruolo di garante e mediatore. Un grande stratega. Il nome ce l’ho, ma
non voglio bruciarlo”.
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