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07/03/2016

Reagan a Pechino?

“Adam Smith a Pechino” è il titolo di un libro di Giovanni Arrighi di qualche anno fa, in cui si sosteneva che la Cina conserva, malgrado le liberalizzazioni, caratteristiche che la distinguono dai Paesi a capitalismo “puro”: la preferenza per produzioni labour intensive che garantiscono alti livelli di occupazione; una politica che persegue equilibri stabili anche a costo di periodici rallentamenti della crescita, oltre, ovviamente, al ruolo strategico dell’intervento statale in economia. L’economista francese Mylène Gaulard – in un libro che fa il verso al titolo di Arrighi, “Karl Marx a Pechino” – spiega tuttavia che oggi le cose sono molto cambiate, al punto che l’attuale crisi cinese ricalca le dinamiche di quella che ha sconvolto l’economia globale nel 2008: preparata dalla perdita di competitività del sistema produttivo dovuta alla crescita dei salari, e dalla rapida crescita dei debiti – pubblici e privati –, la crisi è esplosa – proprio come in Occidente – quando è scoppiata la bolla speculativa di un mercato immobiliare cresciuto troppo in fretta e disordinatamente.

A dare la misura di quanto poco sia rimasto della vecchia Cina è ancor più la ricetta che il partito e il governo guidati dal Presidente Xi Jinping si appresterebbero ad adottare, secondo un articolo del New York Times, per fronteggiare la situazione. Ispirate alla teoria del “supply-side” (quella, per intenderci, che legittimò le politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher) le nuove riforme si baserebbero sui tagli alle tasse per gli investitori, sulla deregulation finanziaria e su radicali sforbiciate agli investimenti pubblici. Se ciò fosse vero, alcuni studi valutano che simili misure costerebbero la perdita di tre milioni di posti di lavoro nei soli settori delle industrie siderurgiche e minerarie, ma la cifra totale potrebbe essere assai più elevata.

È vero che dal 1997 al 2007 erano stati eliminati trenta milioni di posti di lavoro, ma ciò avveniva in un momento in cui una tumultuosa crescita economica consentiva di riassorbire rapidamente la forza lavoro espulsa dai settori in crisi. Viceversa i lavoratori licenziati rischierebbero oggi di ritrovarsi in condizioni disperate, anche per l’assenza pressoché totale di ammortizzatori sociali. Ove si aggiunga che negli ultimi anni i conflitti industriali sono cresciuti a ritmo esponenziale, con migliaia di scioperi che hanno colpito soprattutto le imprese multinazionali insediate nelle cosiddette zone speciali (create fra la fine dei '70 e l’inizio degli '80 per attirare gli investimenti stranieri sul territorio cinese), è evidente che imboccare questa strada implicherebbe il rischio di innescare esplosioni sociali di proporzioni imprevedibili.

Oltretutto finora i protagonisti delle lotte sono stati soprattutto i giovani operai delle imprese private immigrati dalle zone agricole, mentre gli operai delle imprese di stato – più anziani, più “garantiti” e meno sfruttati – erano rimasti fuori dalla mischia. Ora che la scure minaccia di colpire soprattutto loro, con la chiusura di centinaia di “fabbriche zombie” (come vengono chiamate le imprese improduttive tenute in piedi a suon di sovvenzioni statali), è tuttavia prevedibile che anch’essi scendano in campo. Si capisce quindi perché l’establishment tenti di rassicurare l’opinione pubblica promettendo che la “cura” sarà meno drastica e dolorosa del previsto. Staremo a vedere, ma certo sarebbe un bel caso di ironia della storia se la controrivoluzione liberista inaugurata da Reagan e Thatcher, che ha eliminato milioni di tutte blu occidentali trasferendone i posti di lavoro in Cina, finisse per rianimare lo spettro della rivoluzione socialista proprio là dove esso sembrava avviato a vivere un definitivo tramonto.

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