di Michele Paris
Quali potrebbero essere le implicazioni e i riflessi politici e
sociali negli Stati Uniti se dovesse emergere che la minaccia di
attentati terroristici sul suolo domestico è in gran parte non solo
alimentata, ma fabbricata dalle forze di polizia? La domanda è del
tutto legittima, visto il ruolo ricoperto dall’FBI (Federal Bureau of
Investigation) nell’ideazione, pianificazione e quasi esecuzione di
molte delle trame di matrice presumibilmente terroristica “sventate” in
America negli anni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001.
La
discussione sulle cosiddette “sting operations”, o operazioni sotto
copertura, condotte dall’FBI non è nuova, ma un’analisi approfondita
pubblicata questa settimana dal New York Times ha riportato al
centro dell’attenzione sia il crescente ricorso a questi metodi
nell’ambito della “guerra al terrorismo” sia la strumentalizzazione
politica della presunta minaccia incombente sulla sicurezza pubblica.
Per
il quotidiano americano, le operazioni sotto copertura erano
considerate in passato come uno strumento eccezionale, mentre oggi
“vengono impiegate in circa due su tre procedimenti di incriminazione
che coinvolgono individui sospettati di avere legami con lo Stato
Islamico” (ISIS). Le preoccupazioni sono tanto maggiori quanto le
operazioni clandestine non richiedono il mandato di un giudice, ma
possono essere autorizzate sommariamente dai “supervisori” dell’FBI e
dai procuratori del Dipartimento di Giustizia.
Se a queste
operazioni si faceva già ricorso quando la minaccia terroristica
principale per gli americani era identificata con al-Qaeda, l’impennata
registrata dal Times con l’entrata in scena dell’ISIS appare come la
logica conseguenza della caratterizzazione con toni apocalittici
dell’ascesa del “califfato”. Parallelamente, l’opposizione sempre più
forte della popolazione americana a nuovi interventi militari all’estero
e all’adozione di misure lesive delle libertà democratiche ha richiesto
l’ingigantimento della minaccia terroristica percepita.
La
necessità di alimentare, se non addirittura di promuovere, la minaccia
del terrorismo è apparsa tra le righe di una dichiarazione rilasciata
sempre al New York Times dal capo della divisione sicurezza
nazionale dell’FBI, Michael Steinbach. Rivelando forse più di quanto
intendeva sostenere, quest’ultimo ha affermato che la sua agenzia “non
può attendere che una persona [sospettata di pianificare attentati
terroristici] si muova secondo i propri tempi”, ma va evidentemente
incoraggiata in qualche modo.
L’FBI, ha aggiunto Steinbach, “non
si può permettere di rimanere immobile e aspettare, sapendo che un tale
individuo sta attivamente complottando” un attentato. La realtà dei casi
analizzati dal Times indica piuttosto che l’FBI, al fine di
favorire un clima di tensione nel paese, decide sempre più spesso di
agire per precipitare l’organizzazione di atti violenti che, senza il
contributo attivo e determinante di informatori o agenti sotto
copertura, non verrebbero mai portati a termine.
Così, in recenti
operazioni “dalla Florida alla California, gli agenti [dell’FBI] hanno
aiutato individui sospettati di essere estremisti ad acquistare armi, a
studiare obiettivi da colpire e a organizzare viaggi in Siria per unirsi
allo Stato Islamico”. Per l’ex agente FBI sotto copertura, Michael
German, la polizia federale americana sta in sostanza “inventando casi
di terrorismo”, poiché le persone coinvolte, di per sé, “sono ben
lontane dal rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti”.
Avvocati
difensori, organizzazioni a difesa dei diritti civili e membri della
comunità islamica continuano a contestare le “sting operations”
dell’FBI, definendole come vere e proprie trappole per individui
frequentemente emarginati o affetti da un qualche disagio mentale.
Molti dei casi descritti dal New York Times
rivelano una trama pressoché identica, nella quale gli agenti dell’FBI
individuano sui social media persone che esprimono simpatie o sostegno
per organizzazioni fondamentaliste, come l’ISIS, oppure manifestano
l’intenzione di commettere atti violenti. Una volta identificato il
proprio obiettivo, l’FBI incarica un agente sotto copertura di
contattare on-line il potenziale “terrorista”.
Stabilito il primo
contatto, segue uno scambio di messaggi, per fare emergere le
intenzioni del sospettato, ed eventualmente un incontro di persona. Il
compito dell’agente clandestino è quello di istigare l’individuo oggetto
dell’operazione, proponendosi come un possibile fornitore di armi ed
esplosivi, aiutandolo a individuare obiettivi da colpire oppure
promettendo di facilitare un futuro trasferimento in Medio Oriente.
In
molti casi, l’FBI decide l’arresto dei sospettati dopo che a questi
ultimi sono state fornite armi, rigorosamente inoffensive, o biglietti
aerei per il Medio Oriente. Invariabilmente, gli agenti sotto copertura
registrano inoltre conversazioni nelle quali chiedono in maniera
esplicita ai potenziali terroristi se intendono rinunciare all’attentato
in programma o a unirsi all’ISIS. In questo modo, l’FBI si mette
presumibilmente al riparo da complicazioni legali e dall’accusa di avere
incastrato la persona al centro delle operazioni.
Emblematico è
l’esempio del presunto estremista islamico Gonzalo Medina, di Miami.
L’FBI aveva dapprima aperto un’indagine su quest’ultimo dopo avere avuto
notizia delle sue intenzioni di fare esplodere una sinagoga. Le prove
nei suoi confronti erano però scarse, ma il Bureau non si è dato per
vinto. Un informatore dei federali lo aveva allora agganciato, ma in una
discussione durante un incontro di persona Medina aveva preso le
distanze da un amico che a sua volta si era detto disposto a prendere di
mira una sinagoga.
Qualche giorno più tardi i due si trovavano
in auto in un sobborgo di Miami e l’informatore aveva indicato una
sinagoga come possibile obiettivo di un attacco terroristico durante una
festività ebraica che avrebbe avuto luogo di lì a due settimane.
Medina, verosimilmente per assecondare il suo interlocutore, aveva
risposto che quello sarebbe stato “un buon giorno per fare esplodere”
l’edificio.
L’informatore aveva così presentato Medina a un
esperto di esplosivi, in realtà un agente dell’FBI in incognito.
All’incontro, Medina aveva detto di volere commettere un attentato in
nome dell’ISIS e l’agente gli aveva posto varie domande per assicurarsi
delle sue motivazioni, aggiungendo che “non era obbligato a farlo”.
Infine,
lo stesso agente aveva consegnato a Medina una bomba “inerte” ed
entrambi si erano diretti in auto verso la sinagoga in questione. Quando
il presunto attentatore era sceso dal veicolo con l’ordigno tra le
mani, gli uomini dell’FBI hanno proceduto all’arresto.
Altri casi riportati dal Times sollevano
le stesse perplessità e confermano come la minaccia teorica
rappresentata dagli individui al centro delle operazioni sotto copertura
dipende interamente dalle azioni dell’FBI. I sospettati non si sono
quasi mai macchiati di alcun crimine in senso stretto, mentre eventuali
post o dichiarazioni a favore di organizzazioni fondamentaliste, in
assenza di atti concreti, dovrebbero essere garantiti dal principio
della libertà di espressione, protetta dal Primo Emendamento alla
Costituzione americana.
Tra i casi citati che suscitano le
maggiori perplessità c’è quello di Emanuel Lutchman di Rochester, nello
stato di New York, al quale un informatore della polizia aveva
consegnato 40 dollari per l’acquisto di un machete e altri oggetti che
avrebbero dovuto servire per l’esecuzione di un improbabile attentato
alla vigilia di Natale dello scorso anno. Lutchman era in terapia per
una malattia mentale e, secondo i suoi famigliari, qualche mese prima
dell’arresto l’FBI gli aveva proposto di diventare egli stesso un
informatore.
In molti casi, i sospettati finiti nella rete
dell’FBI si dichiarano colpevoli di avere progettato attentati
terroristici o di essere stati sul punto di unirsi a un organizzazione
fondamentalista. Più che la concretezza delle prove a loro carico, ciò
conferma il disorientamento di queste persone.
Nonostante
le accuse rivolte al governo di fabbricare a tavolino minacce e
complotti di natura terroristica, i casi finiti in tribunale si sono
quasi sempre conclusi con verdetti di colpevolezza e lunghe condanne.
Anche in questo caso, l’esito dei procedimenti basati sulle operazioni
sotto copertura non dipende tanto dalla solidità delle accuse, quanto da
leggi sull’anti-terrorismo particolarmente severe e dalla sostanziale
accettazione dei principi anti-democratici della “guerra al terrore” da
parte del potere giudiziario.
Almeno un giudice americano ha però
nel recente passato descritto le “sting operations” dell’FBI per quello
che realmente sono. Il giudice Colleen McMahon del tribunale
distrettuale degli Stati Uniti a Manhattan in un caso del 2011 affermò
in aula di “credere senza ombra di dubbio che non ci sarebbe stato
nessun crimine senza l’istigazione, la pianificazione e la messa in atto
da parte del governo”.
Il caso riguardava quattro musulmani di
Newburgh, nello stato di New York. L’FBI aveva piazzato un informatore
in una moschea di questa città e l’operazione prevedeva addirittura un
piano per il lancio di missili terra-aria contro una base aerea e due
sinagoghe. Un finto missile era stato realizzato dall’FBI e
successivamente consegnato ai quattro “attentatori”. Nonostante
l’assurdità della vicenda e le esternazioni del giudice di New York, gli
imputati vennero incredibilmente condannati e le accuse sarebbero state
poi confermate anche dalla sentenza di Appello.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento