La costruzione europea scricchiola rumorosamente. È su tutti i media l’intervista rilasciata ieri all’edizione domenicale del Die Welt dal più potente e determinato tra i ministri delle finanze, Wolfgang Schaeuble.
Dopo il voto popolare britannico per l’uscita dall’Unione Europea sembra abbastanza chiaro che il cosiddetto “euroscetticismo” (definizione ideologica, che cerca di accomunare resistenze nazionaliste e critica radicale della gabbia neoliberista) non è più contenibile. Basta mettere in fila il “rivoto” in Austria per il presidente della Repubblica (dove la destra paranazista già pensa a un referendum per l’uscita), le tentazioni della Cechia, l’impossibilità di formare un governo in Spagna, il tracollo di Renzi come pifferaio, la ribellione di lavoratori e studenti francesi contro Hollande e la loi travail voluta dalla Ue (identica al jobs act, per capirci), l’avanzata dei nazionalisti in Olanda e nella stessa Germania.
Davanti a questo sfarinarsi dell’approccio “federalista senza federalismo” – ovvero senza politica fiscale ed economica comune, con redistribuzione interna di ricchezza e costi – Schauble propone di abbandonare le illusioni e le “grandi visioni”, tornando a un approccio “intergovernativo”. In pratica propone di accantonare la Commissione (il “governo” europeo) e quel poco che esiste di Parlamento di Strasburgo, privilegiando gli accordi interstatuali “tra chi ci sta”.
«Adesso è il tempo del pragmatismo. Se non tutti i 27 Paesi membri della Ue vogliono mettersi insieme dall’inizio, allora inizieremo con pochi. Se la Commissione non ne fa parte, allora prenderemo le questioni nelle nostre mani e risolveremo i problemi fra i Governi». Difficile equivocare o sottovalutare la presa di posizione tedesca. Significa chiaramente che il progetto unitario fin qui seguito viene mandato in soffitta, pur mantenendo – o sperando di poter mantenere – nella nuova situazione tutti i trattati vincolanti fin qui firmati.
«In linea di principio, sono favorevole a una maggiore integrazione in Europa. Ma questo non è il momento. Di fronte alla demagogia e all’euroscetticismo sempre più diffuso, l’Europa semplicemente non può continuare come prima». Quindi stop al processo di integrazione a 27, nessuna concessione particolare alla Gran Bretagna una volta completato il tour della negoziazione sullo “svincolo”, e stratta decisa con gli infelici pochi che avranno governi così dementi o così corrotti da non capire dove può portare una concentrazione di potere in quelle mani.
Sul piano “filosofico” è una visione presuntamente empirica, orientata al fare subito piuttosto che alle lungaggini tipiche degli “avvocati dell’integrazione”. Ma è in realtà una linea che privilegia la forza sulle regole, l’imposizione di rapporti fondati sulla potenza economica rispetto al delineare un “sistema” articolato di diritti e doveri.
Non che l’Unione Europea abbia fin qui seguito la seconda linea. Ma ha sempre oscillato tra “strappi violenti”, in cui si stabilivano regole e principi nuovi, e fasi più “contrattualizzate”, con lunghe stagioni di discussioni anche giuridiche sulle scelte da fare. Com’è ovvio, ogni crisi ha favorito gli strappi e solo l’assenza di problemi seri ha permesso fasi più “ragionate”.
Ma dopo otto anni di crisi economica senza soluzioni e il moltiplicarsi di segnali di scollamento della costruzione comunitaria, la Germania sembra ormai decisa a dare uno scrollone pesantissimo, riducendo a nulla i poteri del “governo comune” (camera di compensazione formalmente paritaria tra tutti i paesi) per creare nuovi centri decisionali praticamente nelle proprie mani.
Certo, venirci poi a raccontare che “lo vuole l’Europa” diventerà impossibile...
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