Il parlamento israeliano ha annunciato all’inizio di questa settimana di aver abbassato da 14 a 12 anni l’età minima per imprigionare i bambini responsabili di azioni “terroristiche”, una misura che secondo la Knesset si sarebbe resa necessaria a fronte dei ripetuti attacchi messi a segno di recente da giovani palestinesi. La nuova legge “permetterà alle autorità di imprigionare un minore riconosciuto colpevole di un grave crimine quale omicidio, tentato omicidio o omicidio colposo, anche se lui o lei ha meno di 14 anni”, si legge sul sito web del parlamento.
Nella nota si sottolinea che la gravità degli attacchi messi a segno negli ultimi mesi “richiede un approccio più aggressivo, anche verso i minori”. Da notare che mai si parla di bambini, nell'apparentemente neutro ed ipocrita linguaggio delle forze di occupazione israeliane. “Poco importa a quanti vengono uccisi con una pugnalata al cuore se il minore (responsabile dei fatti) ha 12 o 15 anni”, ha spiegato Anat Berko, un deputato del partito di destra sionista Likud, estensore del testo legislativo sostenuto dal ministro della Giustizia Ayelet Shaked. La nuova legge non fa che aggravare una situazione già incancrenita, con centinaia di bambini palestinesi rinchiuse nelle carceri israeliane, in molti casi senza neanche essere passati per un tribunale ma in virtù della criminale pratica della ‘detenzione amministrativa’ che lede ogni diritto dell’imputato a potersi difendere e discolpare.
L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha criticato la legge e il trattamento riservato ai giovani palestinesi da parte delle autorità israeliane: “Piuttosto che mandarli in prigione, Israele farebbe meglio a mandarli a scuola dove potrebbero crescere con dignità e liberi, non sotto occupazione. Imprigionare minori così giovani significa negare loro la possibilità di avere un futuro migliore”.
Secondo un bilancio pubblicato nei giorni scorsi dall’agenzia France Presse da ottobre nei territori palestinesi occupati ed a Gerusalemme sono morti 218 palestinesi, 34 israeliani, due statunitensi, un eritreo ed un sudanese.
Se i bambini palestinesi sono tra le principali vittime dell’occupazione israeliana della Palestina, nel cosiddetto ‘stato ebraico’ nei giorni scorsi è tornato a galla lo scandalo dei ‘bambini rubati’. Infatti il governo Netanyahu ha riconosciuto per la prima volta durante lo scorso fine settimana che centinaia di bambini ebrei sono stati “rubati”, rapiti. “Se il governo ne era a conoscenza o meno, se fu il governo a organizzare i rapimenti o meno, probabilmente non lo sapremo mai” ha commentato il ministro Tsahi Hanegbi al quale tempo fa il primo ministro aveva ordinato di aprire una inchiesta ufficiale.
A raccontare la sua storia è stata Hattune Abudi, che nonostante i suoi 87 anni non smette di sperare di incontrare un giorno la figlia che le fu rubata appena messo piede in Israele. Era il luglio del 1951 quando Hattune, con sua marito e due figli piccoli, atterrarono all’aeroporto di Tel Aviv insieme ad un folto gruppo di immigrati pieni di speranze per il loro arrivo nella ‘terra promessa’. “Ero incinta di sei mesi, ci misero in un campo provvisorio. Ad ottobre partorì nella nostra tenda una bimba con dei bellissimi occhi azzurri. La chiamai Rivka e ricordo ancora oggi il suo odore” racconta l’anziana signora al quotidiano spagnolo El Pais. Un giorno portarono la bimba nell’ospedale del campo e improvvisamente Rivka sparì. Ai genitori dissero che era morta ma nessuno consegnò il certificato di morte ai genitori né gli mostrò il corpo. Era la vittima perfetta per un rapimento: Rivka era nata in una tenda, non esisteva alcun documento ufficiale che attestasse la sua nascita, i genitori erano profughi che non parlavano neanche la lingua ebraica.
Un altro caso è quello raccontato da Yusef, figlio di immigrati yemeniti. Sua madre partorì una bimba nel 1950, anche lei appena sbarcata in Israele. Un giorno sua figlia, che aveva tre mesi, sparì dall’ospedale dov’era ricoverata in osservazione. Alla madre dissero che era stata dimessa; quando i genitori protestarono con il personale vennero arrestati dalla polizia per ‘alterazione dell’ordine pubblico’.
All’epoca alcuni giornali parlarono di ‘febbre da adozione’ ma le inchieste ufficiali furono avviate, senza grandi risultati, solo alla fine degli anni ’60. La prima Commissione d’inchiesta fu varata nel 1967, quando le denunce da parte di immigrati erano troppo numerose ormai per essere ignorate. Si investigò su 342 casi di bambini scomparsi o dichiarati morti. La commissione sentenziò che in 316 casi i neonati erano veramente deceduti. Ma i genitori e alcuni avvocati non si diedero per vinti e ottennero nuove inchieste. Nel 1988, nel 1995 e poi ancora nel 2001 altrettante commissioni d’inchiesta arrivarono però a risultati simili e nebulosi. Solo in cinque casi si ammise che vi era la possibilità che i bambini fossero vivi ma mai si fece riferimento a eventuali rapimenti e i documenti vagliati dalle commissioni vennero secretati, si disse, per salvaguardare la privacy dei testimoni.
La maggioranza delle famiglie di immigrati ebrei alle quali vennero sottratti i figli provenivano dallo Yemen; erano i più poveri, i più marginali, non parlavano l’ebraico. L’associazione Amram parla di ben 5000 desaparecidos, tra i quali ebrei provenienti dai Balcani, altri provenienti dal Nord Africa e addirittura alcuni casi di ebrei poveri che vivevano in Palestina prima della fondazione dello Stato d’Israele.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento