Piena disponibilità insomma a concedere le nostre basi a Washington, ma finora secondo il ministro le ‘operazioni’ dei caccia e dei droni a stelle e strisce non avrebbe coinvolto l’aeroporto di Sigonella, dove è di stanza la Naval Air Station americana. Secondo fonti militari statunitensi ancora nelle ultime ore gli attacchi su Sirte sarebbero stati effettuati con elicotteri e caccia decollati dalla portaelicotteri Wasp che si trova nel Mediterraneo e con alcuni droni partiti da una base in Giordania.
Ma secondo molti esperti è assai improbabile che i droni possano percorrere i 1850 km che separano la base in Giordania da Sirte, e il sospetto è quindi che Washington stia utilizzando proprio la sua base nell’isola siciliana, anche se senza ammetterlo ufficialmente per non mettere nei guai il governo italiano. D’altronde già negli ultimi mesi, sulla base di un accordo più o meno segreto rivelato però nel febbraio scorso dal Wall Street Journal, Renzi aveva già concesso l’uso di Sigonella e di altre basi in territorio italiano per far partire i droni che hanno sorvolato – e forse anche già bombardato – ripetutamente la Libia.
Probabilmente Pinotti annuncerà solo nei prossimi giorni la concessione di Sigonella ai droni Usa anche se di fatto il coinvolgimento italiano nella cosiddetta ‘Odissea Fulminea’ è già in corso, senza alcun voto del parlamento. Ieri alla Camera è passata comunque una mozione presentata dal Partito Democratico che impegna il governo “a continuare a sostenere quanto l’esecutivo di accordo nazionale libico farà per contrastare Daesh, nel solco di quanto già previsto dalla risoluzione 2259”, e siccome l’uso delle basi e del nostro spazio aereo sono già previsti dagli accordi firmati tra Roma e Washington lo scorso anno difficilmente i deputati saranno chiamati a dire la loro sull’ennesima operazione bellica in cui il governo coinvolge il nostro paese.
Gli Stati Uniti promettono che l’operazione è a tempo – 30, massimo 40 giorni – e che eliminerà la minaccia del Califfato in Libia. Washington non solo vuole recuperare protagonismo in un’area del Nord Africa ricca di petrolio e gas da sfruttare, contendendo ai paesi europei – Italia, Francia e Gran Bretagna in particolare – il controllo dei giacimenti e di un territorio strategico, ma mira anche ad indebolire il generale Khalifa Haftar, un tempo legato a doppio filo alla Casa Bianca (e alla Cia) e da qualche tempo invece uomo dell’Egitto, del Qatar e della Turchia nel complicato rompicapo libico. Il parlamento di Tobruk, che Haftar sostiene, continua ad accusare il cosiddetto governo di unità nazionale di Serraj di aver chiesto un intervento illegale da parte degli Stati Uniti senza averne la legittimità e l’autorità. Il governo della Cirenaica considera “Odissea Fulminea” un’operazione illegale che viola la sovranità libica ed ha convocato l’ambasciatore Usa nel paese per denunciare le violazioni aeree di Washington. Da parte sua il Consiglio Supremo delle Tribù e delle Città Libiche, una sorta di confederazione di tribù e clan che si spartiscono il potere in varie parti del paese e che sostiene tanto il parlamento e il governo di Tobruk quanto le truppe del generale Haftar, ha denunciato come “imperialista” l’intervento militare statunitense, chiedendo all’Unione Africana e al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di assumersi le proprie responsabilità e proteggere il popolo libico, considerando che i raid statunitensi saranno sfruttati dal governo di Tripoli per colpire i propri oppositori”. Nel frattempo le truppe agli ordini del governo di Tobruk hanno bombardato Derna, città occupata dal cosiddetto Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, fazione islamista vicina ad al Qaeda, in risposta all’attentato che ha ucciso proprio a Bengasi 23 soldati agli ordini di Haftar. In cerca di un leader popolare e ancorato al tessuto tribale della Cirenaica, da contrapporre al governo fantoccio di Serraj, le milizie di Tobruk potrebbero liberare e riporre le proprie speranze in Saif Gheddafi, imprigionato ormai cinque anni fa dalle Brigate di Zintan passate dalla parte del generale Haftar.
Ed anche la Russia sta cercando di muovere le sue pedine nella regione, dopo aver denunciato come illegale i bombardamenti Usa su Sirte. Mosca considera un problema ed un nemico le milizie islamiste di Misurata, la principale forza di terra a disposizione del governo Serraj alla quale i raid Usa di questi giorni forniscono appoggio aereo, come del resto Haftar e il suo sponsor egiziano.
Oltretutto difficilmente, come afferma Washington, una campagna di bombardamenti aerei potrà liberare il paese dalla penetrazione del Califfato. Molti analisti affermano che dopo il disorientamento dei primi giorni di raid ora Daesh sta cercando di mantenere il controllo su Sirte ma ridistribuendo i propri miliziani in altre aree del sud-ovest della Libia, e al tempo stesso sta reclutando nuove leve approfittando dello sdegno suscitato dall’appello del governo Serraj all’intervento militare degli Stati Uniti e delle sempre più forti rivalità tra clan e tribù.
Secondo Gianandrea Gaiani (Il Sole 24 Ore) l’ennesimo intervento Usa contro i jihadisti sarà tutt’altro che risolutivo.
“L’intervento a stelle e strisce potrà dare una mano alle milizie filo-Tripoli sul fronte di Sirte ma non risulterà decisivo nella guerra contro lo Stato Islamico in Libia i cui miliziani si sono già in gran parte dispersi nel deserto a sud della città” scrive Gaiani. “Di fatto contro l’IS è stato aperto un nuovo fronte a bassa intensità, come quelli in Siria e Iraq (in media 5 raid al giorno su Sirte contro i 20/25 della Coalizione in Medio Oriente), cioè un intervento molto blando ma che a differenza dei fronti mediorientali non vede impegnata la Coalizione costituita contro lo Stato Islamico ma solo forze statunitensi e britanniche. Londra non ha messo in campo velivoli ma sue unità di forze speciali sono da tempo segnalate al fianco delle milizie di Misurata sul fronte di Sirte al punto che a fine giugno il premier Fayez al-Sarraj ringraziò pubblicamente un non meglio specificato Paese (che anche la BBC indicò essere la Gran Bretagna) per il supporto militare ricevuto.Il rischio, scrive Alberto Negri sempre sul Sole 24 Ore, è quello di una ulteriore balcanizzazione della Libia:
Se consideriamo il ruolo rilevante ricoperto dalle forze speciali francesi al fianco delle truppe del generale Khalifa Haftar che combatte le milizie qaediste e dei Fratelli Musulmani in Cirenaica appare evidente come il tramonto dell’ipotesi di schierare una forza internazionale sotto l'egida dell’Onu e a guida italiana abbia lasciato spazio all’intervento di contingenti di alcune potenze che perseguono interessi nazionali probabilmente neppure coincidenti tra loro.
I raid statunitensi del resto evidenziano la marginalità dell’Unione Europea e dell’Italia rispetto alla nostra ex colonia (...) Al-Sarraj si è rivolto a Washington per combattere con più efficacia lo Stato Islamico ma non ha chiesto alle flotte italiana ed europea di intervenire sulla costa e nelle acque libiche per contrastare i trafficanti di esseri umani tra i quali vi sono anche molte milizie e tribù che sostengono il governo di Tripoli.
Le incursioni aeree americane potrebbero poi rivelarsi un boomerang per la traballante posizione di al-Sarraj che ha chiesto i raid per superare l’impasse sul campo di battaglia che vedeva le milizie di Misurata inchiodate dal fuoco dei jihadisti e lamentare l’assenza dal fronte del governo e delle altre milizie della Tripolitania. Milizie e partiti Salafiti e dei Fratelli Musulmani che appoggiano al-Sarraj su indicazione dei loro sponsor in Turchia e Qatar, potrebbero infatti guardare con diffidenza ai raid aerei americani tenuto conto che il premier aveva fatto una bandiera del principio di escludere interventi militari stranieri sul suolo libico”.
“L’Occidente rischia di ricreare in Libia lo stesso scenario che si era delineato nella Somalia del 1991 dopo la caduta del dittatore Siad Barre. I Paesi occidentali hanno scelto di appoggiare militarmente vari signori della guerra libici secondo le convenienze politiche e le promesse economiche ricevute dalle diverse fazioni, in primo luogo riguardo le immense risorse petrolifere e di gas. Una tattica che potrebbe rendere eterno il conflitto nel Paese nord africano, la stessa utilizzata in Somalia dal 1991 al 1993 e che vanificò ogni tentativo di pacificazione”.Fonte
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