I ribelli houthi e i loro alleati rappresentati dal partito del
“Congresso del popolo” dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh hanno
dichiarato ieri sera di aver formato un governo di «salvezza nazionale»
nella capitale Sana’a.
Ad annunciare la formazione del nuovo esecutivo è stato il Consiglio politico supremo, l’organismo con cui i ribelli già amministrano le aree del Paese sotto il loro controllo.
«La riunione [del Consiglio] ha sottolineato come il governo, formato
nelle difficili condizioni in cui versa lo stato, si propone come
obiettivo quello di mettere ordine internamente e di contrapporsi
all’aggressione [della coalizione]» si legge in una nota ufficiale
riportata dall’agenzia di stampa Saba vicina agli houthi.
Immediato è stato il commento dei loro rivali di Aden.
«Questa mossa segna il disprezzo [degli houthi] non solo per il popolo
yemenita, ma anche per la comunità internazionale» ha detto
Rajeh Badi, portavoce del governo del presidente Hadi. «Da più di un
anno e mezzo dal colpo di stato degli houthi, nessuno ha mai
riconosciuto le entità [politiche] che hanno formato» ha poi aggiunto.
L’annuncio di un secondo governo in Yemen – l’altro è
quello nella città meridionale di Aden, riconosciuto dalla comunità
internazionale e sostenuto militarmente dalla coalizione sunnita a guida
saudita – aggrava le tensioni esistenti nel Paese allontanando le possibilità di giungere ad un accordo di pace.
Un processo di pacificazione che gli houthi continuano a non escludere
nonostante il comunicato di ieri del Consiglio supremo. I ribelli,
infatti, sostengono di aver accettato in più occasioni il piano di pace
dell’inviato Onu Shaykh Ahmed (governo di unità nazionale, loro ritiro
dalle aree occupate e consegna delle armi) a condizione che il
presidente in esilio Hadi, figura considerata da loro troppo vicina ai
sauditi, si faccia da parte.
Tuttavia, l’atto politico compiuto ieri sembra andare in direzione
del tutto contraria al proseguimento del dialogo per una soluzione
pacifica e contraddice le speranze delle Nazioni Unite che auspicano da
tempo un governo di unità nazionale che includa sia i ribelli sia il
campo che orbita attorno ad Hadi.
E se l’annuncio di ieri non lascia ben sperare per il futuro
di un Paese già sull’orlo del baratro (oltre 10.000 morti, più di 3
milioni di rifugiati interni e la gran maggioranza della popolazione
malnutrita), non stemperano sicuramente gli animi i ripetuti massacri ad
opera della coalizione. Soltanto nella giornata di sabato, per
esempio, un raid aereo del blocco sunnita ha ucciso almeno 13 civili
vicino al porto della città occidentale di Hodeida. Secondo fonti
mediche dell’ospedale ath-Thawra, nell’attacco sono morti anche donne e
bambini.
Sabato, inoltre, è stato anche il giorno in cui il presidente Hadi è ritornato nella sua «capitale temporanea» di Aden
(ci resterà però solo per per pochi giorni). La visita del presidente
giunge ad un anno dal suo ultimo viaggio in città e due mesi dopo che il
premier Ahmed bin Dagher e sette ministri si sono lì stabiliti. Numeri
che già da soli fanno ben capire il fallimento della coalizione: dopo 20
mesi di guerra, il blocco sunnita che appoggia Hadi non è ancora
riuscito a rendere sicuro il cuore del governo yemenita. Troppo spesso,
infatti, Aden è teatro dei devastanti attacchi compiuti dal ramo locale
di al-Qa’eda e da gruppi affiliati all’autoproclamato Stato Islamico.
I combattimenti tra i due schieramenti (e rispettivi alleati) continuano anche in altre aree del Paese.
I ribelli hanno attaccato in questi giorni la città di Midi sul mar
Rosso e vicina al confine saudita uccidendo sei soldati e ferendone 14.
Negli scontri hanno perso la vita anche due combattenti houthi. Una
battaglia violenta si registra anche ad est dove le forze governative
hanno lanciato una incursione dalla provincia saudita di Najran e sono
riuscite a conquistare il punto di controllo di Baqaa. Pesante
il tributo di sangue: 18 ribelli e 6 filo-governativi sono rimasti
uccisi nel corso delle violenze. In una nota, inoltre, l’esercito
yemenita ha fatto sapere ieri di aver neutralizzato nelle ultime 24 ore
50 combattenti dello schieramento rivale nei pressi della provincia di
Hajja, vicina al confine saudita.
Domenica, intanto, è tornato nella regione l’inviato Onu
Shaykh Ahmed per provare a riattivare un moribondo (e finora
fallimentare) processo di pace. Ahmed visiterà l’Arabia Saudita, lo
Yemen e l’Oman cercando di giungere ad una mediazione tra le parti in
lotta. Secondo gli osservatori internazionali, la missione
diplomatica dell’alto funzionario internazionale ha poche possibilità di
aver successo visto il profondo divario tra le proposte avanzate dalle
Nazioni Unite e quelle del governo yemenita e dei suoi alleati arabi. A
pesare è anche l’assenza di una chiara posizione da parte degli Stati
Uniti durante l’attuale periodo di transizione politica dovuto
all’imminente fine del secondo mandato presidenziale di Obama.
Non sono poi incoraggianti per Ahmed i risultati finora raggiunti:
l’ultimo cessate il fuoco è collassato lo scorso agosto, mentre un
cessate-il-fuoco di 48 ore, dichiarato dalla coalizione e mai
completamente rispettato, è terminato lo scorso lunedì.
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