La prima riguarda la tesi di
Bill Gates sulla tassazione dei robot. Il suo ragionamento è stato
questo: molta della disoccupazione nell’Occidente progredito dipende
dalla sostituzione dei robot alle persone nei processi produttivi, nel
mondo dei servizi alle imprese, nei media, nella pubblica
amministrazione, nella sanità ecc. La rivoluzione robotica non è come la
prima rivoluzione industriale, che distrusse milioni di posti di
lavoro, ma che alla fine, sia pure dopo 150 anni, né creò molti di più e
nuovi.
Che fare, dunque?
Bisogna tassare i robot, perché
le entrate di uno stato sono le tasse, e senza redditi da tassare, uno
stato non potrebbe esistere. Le tasse sui robot manterrebbero in vita lo
stato, che potrebbe erogare redditi sotto varie forme, in pratica
salvare il welfare che è rimasto e se possibile allargarlo. Finirebbe
un’epoca e se ne aprirebbe un’altra, tutta da esplorare: finirebbe
un’espressione con la quale abbiamo convissuto per secoli: redditi da
lavoro.
Le teorie economiche dominanti
ci hanno sempre detto che la scarsità di una merce ne costituisce
fondamentalmente il valore: l’oro vale tanto perché è scarso; il lavoro
(e il correlato reddito) vale di più se è scarso e vale di meno se è
abbondante. Interi cicli economici potevano essere descritti con la
scarsità o abbondanza di determinati fattori (energia, materie prime,
forza lavoro).
Ma si trattava di scarsità e
abbondanze relative, di un fattore rispetto a un altro, di una fase
rispetto a un’altra, non assolute. La novità di Bill Gates sta tutta
qui: la scarsità del lavoro è assoluta, non c’è più lavoro, lavorano i
robot e i “lavoratori” sono senza lavoro, dunque tendenzialmente non
sono più “lavoratori”.
Ma devono vivere.
E per vivere (che non significa sopravvivere), devono avere un reddito.
La tesi di Gates ha due facce: una produttiva o tecnologica, l’altra politica.
Vediamo questa seconda. Lo stato
non può fare a meno delle tasse, non ha mai potuto farne a meno.
Tassare i robot significa salvare lo stato, cioè le sue entrate. Che poi
diventano redditi erogati agli ex lavoratori.
Leggiamo tra le righe: lo stato è
indispensabile. Come indispensabile è quella che una volta si chiamava
la “fabbrica”: questa per produrre la ricchezza, quello per
distribuirla. La forma-stato, che viene da lontano, piantata nel cuore della modernità, non può deperire, come non può deperire la coeva forma-fabbrica della produzione.
L’ipotesi rivoluzionaria di
Gates ha questo di antico: ogni cambiamento è possibile, ma dentro
l’eternità delle forme della produzione e della politica.
La seconda grande notizia data
in pasto al pubblico e subito rimossa e circoscritta agli specialisti
del settore è che è stato scoperto a milioni di anni luce di distanza un
sistema solare, molto simile al nostro, con sette satelliti, e con
condizioni di vita molto probabili.
Un grande storico del Novecento
lamentava che gli storici non avevano sempre dato la dovuta importanza
allo spazio, che avevano sempre dato il primo posto al tempo, e li
spronava ad integrare la geografia nella storia, a collocare eventi e
fatti nella dimensione, non fisica, dello spazio-tempo.
D’altra parte, i geografi
avevano fatto l’errore opposto, dando il primato allo spazio e
dimenticando il tempo. Gli astronomi a caccia di pianeti sembrano i
geografi del nostro tempo andato. Chi proverà a rispondere alla loro
scoperta, che possiamo tradurre nella formula “un altro universo è
possibile?”.
Forse tutti, tranne gli storici, che lo riempirebbero delle nostre storie.
Per finire: le due notizie forse
hanno qualcosa in comune. Se non altro sono esplorazioni, entrambe, del
futuro. Con una sia pur provvisoria ipotesi alla base: un altro mondo è
possibile.
Il mondo della post-verità.
Subito dopo l’elezione di Trump,
quando tutti accusavano i pagatissimi specialisti di sondaggi
elettorali per le loro erratissime previsioni, l’ineffabile Fukuyama ha
scritto un articolo sulla post-verità. La moda del post non è ancora
finita; dopo il mondo post-industriale, il mondo post-moderno, il mondo
post-comunista, post-guerra fredda, è entrato, con Fukuyama nel mondo
della post-verità.
E chi meglio di lui, che aveva
già scritto un saggio famosissimo sulla fine della storia, poteva
illuminarci sulla fine del mondo della verità e la nascita del nuovo
mondo della post-verità?
E’ sorto quasi all’improvviso “un
mondo post-fattuale, in cui quasi tutte le fonti d’informazione
autorevoli sono messe in discussione e contestate con notizie contrarie
di dubbia qualità e provenienza” (Il Sole 24 ore, 5/3/2017).
Fine dei fatti, dunque, che quotidianamente ci dispensavano le fonti d’informazione autorevoli, belli o brutti che fossero.
Eravamo liberi di crederci o no, ma non potevamo mettere in discussione le fonti.
Invece, udite, udite: quel che non doveva accadere, è accaduto.
Ed è pericolosissimo: afferma autorevolmente Fukuyama che la contestazione delle fonti autorevoli mette in pericolo la democrazia.
Qualcuno che ancora crede alla
democrazia ha ribattuto che per battere le notizie false basta
diffondere quelle vere: insomma il rovescio della legge di Gresham,
secondo la quale la moneta cattiva scaccia quella buona.
Per Fukuyama non basta. Negli anni '90 internet e il web sembrarono una manna del cielo per la democrazia mondiale,
continua il nostro, ma era una visione ottimistica, che non vedeva
l’altra faccia della medaglia: l’uso rovesciato e manipolatorio che ne
avrebbero fatto gli “stati autoritari e repressivi”: e, infatti, “il principale manipolatore dei social media è la Russia”, come si è visto durante la campagna elettorale americana.
Questo sì è parlar chiaro e vero.
Ma l’altro campione della
manipolazione è proprio il presidente eletto, che – per giustificare i 2
milioni di voti in meno rispetto alla Clinton – è arrivato a dire che
molti americani avevano votato illegalmente.
E molti gli hanno creduto.
E questo è ancora più grave. Perché le persone credono a bugie colossali?
Nel mondo precedente della
verità noi credevamo a notizie e informazioni senza bisogno di capirle
fino in fondo, senza esserne esperti.
Ma perché?
Il motivo era che in quel mondo “esistono delle istituzioni imparziali che hanno il compito di produrre (sic) elementi di fatto di cui ci fidiamo”.
Nel mondo della post-verità, che è il mondo di Trump, “ogni cosa è politicizzata”, c’è “un assalto a tutto campo contro le istituzioni democratiche”.
Gli USA, come si sa, vengono sempre prima: “Negli
Stati Uniti c’è un degrado delle istituzioni, con potenti gruppi
d’interesse in grado di proteggersi attraverso un finanziamento
illimitato delle campagne elettorali”.
E prima no?
Forse Fukuyama non viveva in America.
Ormai, conclude sconsolato il nostro, gli americani pensano che tutte le istituzioni siano corrotte.
Così “la democrazia americana, la democrazia in generale (che per Fukuyama sono in fondo la stessa cosa)
non sopravviverà alla mancanza di fiducia nella possibilità che
esistano istituzioni imparziali: la lotta politica faziosa arriverà a
pervadere ogni aspetto dell’esistenza”.
Mentre scriveva queste cose,
Wikileaks faceva sapere al mondo della post-verità che l’autorevolissima
Cia spiava tutti, ma proprio, tutti; quando telefonavamo,
messaggiavamo, vedevamo la televisione o prendevamo una bottiglia di
vino dal frigo.
Com’era verde la mia valle...
Nessun commento:
Posta un commento