Questa risposta di Fulvio Scaglione, ex vicedirettore di Famiglia Cristiana, attualmente all'Avvenire (giornale dei vescovi italiani, mica di Belzebù...), alle critiche rivoltegli da Left ci sembra pressoché esaustiva. Intendere il dovere di una corretta informazione come obbediente a delle metaregole "ad capocchiam" (politiche, etiche, moraleggianti o moralistiche) è fare consapevolmente della disinformazione. Un parallelo può aiutare: medici e infermieri, secondo il giuramento di Ippocrate, sono tenuti a curare tutti quelli che gli arrivano davanti. Tutti vuol dire indipendentemente da qualsiasi considerazione etnica, politica o religiosa; e naturalmente dalla quantità di denaro nelle tasche del paziente.
Naturalmente, fare vero giornalismo non implica "cancellare le proprie opinioni" (ci sembra che le nostre siano abbastanza esplicite), ma prima viene l'informazione, per quanto orrenda sia. Altrimenti si fa propaganda... Che è un altro mestiere, a volte persino nobile e necessario, ma è un altro...
Un giornalismo politicamente o moralmente "selettivo" equivale a quel medico o infermiere che subordina la cura alla sintonia politico-religiosa col paziente o, peggio ancora, alla possibilità del paziente di pagare.
Non a caso, in tema di sanità, ci stiamo avvicinando a quel glorioso modello di civiltà per cui soltanto chi può pagare può anche essere curato. Si chiama modello capitalistico. E sia che si parli di cure, sia che si parli di giornalismo, questo modello è l'opposto di qualsiasi valore "di sinistra".
Se impariamo a riconoscere le idee a partire dalle pratiche concrete, anziché dalle autodefinizioni, forse riusciremo ad uscire dall'abisso in cui è finita la cultura della trasformazione sociale.
p.s. La chiusura mentale davanti alla realtà è tale da non aver consentito a quelli di Left di vedere che una delegazione di europarlamentari si era recata, qualche giorno prima, a Damasco, guidata dal vice presidente della commissione per gli affari esteri, Javier Couso.
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Com’era previsto, l’intervista a Bashar al-Assad pubblicata da Il Fatto Quotidiano e, per quanto mi riguarda, da Avvenire, e trasmessa in parte anche dal Tg1 e dai canali Mediaset, ha attirato gli strali di alcuni maestrini di morale e giornalismo. Non si intervista un dittatore (criminale, macellaio, torturatore, eccetera, a piacere), non ci si presta alla sua propaganda, non si diventa suoi complici. Questo, per sommi capi, l’argomento più usato.
Vorrei chiarire subito la mia convinzione in merito: si incontra e si intervista chiunque. Se sapessi che interessa ai lettori, intervisterei anche il diavolo. L’idea che intervistare una persona o un personaggio significhi piegarsi ai suoi interessi e ai suoi scopi è patetica. Ho lavorato per tanti anni a Famiglia Cristiana e ricordo l’uscita di interviste, per citarne solo qualcuna, con Felice Maniero (il capo pluriomicida della cosiddetta “banda del Brenta”), Graziano Mesina, il generale Aidid (che tra centinaia di altre avrebbe avuto sulla coscienza anche la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin) e persino Pol Pot. Nessuno pensò mai, e tanto meno scrisse, che “parlare con loro” volesse dire “stare con loro”, sposare le loro tesi. Anche se ovviamente Maniero, Mesina, Aidid e Pol Pot sostenevano la loro “verità”.
Ma veniamo ad Assad. Presso il ministero dell’Informazione della Repubblica di Siria giace una lista lunga un metro di richieste di intervista al Presidente. Comprende tutte le maggiori testate del mondo. Dal punto di vista dei giornalisti, quindi, la questione è presto risolta. Chi non intervisterebbe il cattivo (criminale, macellaio eccetera) Assad forse ha sbagliato mestiere. Dovrebbe farne un altro, magari anche più nobile di quello del giornalista: l’attivista per i diritti umani, il funzionario Onu, il politico. Una delle attività che permettono di far sparire dalla faccia della terra tutti quelli come Assad. Ma non il giornalista.
E aggiungo: d’accordo, non intervistiamo Assad l’assassino. Ma il generale Al Sisi, quello dell’Egitto, del caso Regeni e di centinaia di altri desaparecidos, invece sì? E il re dell’Arabia Saudita e l’emiro del Qatar, oppressori dei loro popoli, finanziatori dell’Isis e assassini di civili nello Yemen? L’ayatollah Alì Khamanei, guida suprema dell’Iran? Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah in Libano? Erdogan mamma li turchi? Il generale Haftar, che fu sgherro di Gheddafi e collaboratore della Cia ma oggi ha in mano le carte decisive in Libia, lo lasciamo perdere e quindi stronchiamo il Corriere della Sera che lo ha fatto parlare?
Posso aggiungere? Perché Tony Blair, che insieme con George Bush mentì al mondo per scatenare l’invasione dell’Iraq e fu così causa di centinaia di migliaia di morti, ha parlato con tutti i giornali per anni, anche dopo che le sue responsabilità erano diventate evidenti? Voi neo-moralisti l’avete mai intervistato? Avreste rifiutato, rifiutereste di incontrarlo? Volete un altro esempio? Eccolo: Aung San Suu Kyi. Ebbe il Premio Nobel per la Pace nel 1991, oggi fa il primo ministro della Birmania e applica una politica di feroce discriminazione, ai limiti della pulizia etnica, nei confronti della minoranza musulmana dei rohynga, più di 800 mila persone. Già vi vediamo rifiutare, sdegnati, un’intervista con l’ex eroina.
Il moralismo un tanto al chilo è la morte dell’informazione. L’intervista con Bashar al-Assad ha avuto tutti i limiti che è possibile immaginare in una situazione come la Siria di oggi. Ma per essere onesti, ho avuto limiti peggiori, in passato, in certi incontri con politici italiani. Inoltre, noi quattro giornalisti italiani che l’abbiamo realizzata ci siamo accordati per fare domande diverse, ad ampio spettro, su temi scomodi per il regime, in modo da ottenere il materiale più ampio possibile. Ci avevano detto una domanda a testa, ovviamente ne abbiamo fatte di più. Non ci è stato chiesto di evitare questo o quell’argomento, né l’avremmo fatto. I lettori ce ne saranno grati. Quelli che si sono investiti del ruolo di agit prop del bene forse no, ma non importa.
da http://www.linkiesta.it/
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