Gli Stati Uniti entrano a gamba tesa nella crisi del Golfo: ieri il
segretario di Stato Usa, Rex Tillerson a Doha ha stretto con il Qatar un
“un memorandum d’intesa in merito ai futuri sforzi che il Qatar può
fare per rafforzare la lotta contro il terrorismo e il suo
funzionamento”. Così il consigliere Hammond spiegava ieri il
contenuto dell’accordo tra Washington e Doha, “passo avanti” nella
risoluzione della guerra fredda in corso con i paesi del fronte sunnita,
Arabia Saudita, Egitto, Bahrain e Emirati Arabi.
Da settimane il segretario di Stato getta acqua sul fuoco acceso da
Trump dopo la visita di fine maggio in Arabia Saudita, ponendosi come
mediatore della crisi: prima di raggiungere Doha ha fatto tappa in
Kuwait, paese impegnato nel negoziato, e oggi volerà a Gedda per
incontrare l’altro fronte, i rappresentanti saudita, egiziano, bahrenita
e emiratino.
L’accordo siglato ieri ha un peso politico importante, una
chiara presa di posizione di un’amministrazione che ora, per bocca dello
stesso Tillerson, definisce “ragionevole” la richiesta di fine
dell’embargo mossa dal Qatar. In aperta opposizione alla
posizione del fronte guidato dai sauditi che di nuovo ieri hanno
accusato Doha di aver violato gli accordi stretti in sede di Consiglio
di Cooperazione del Golfo in merito al sostegno al terrorismo e di
finanziamento della Fratellanza Musulmana, arci-nemico saudita.
L’emirato isolato risponde minacciando di uscire dal Ccg, insistendo nel rifiutarsi di accettare le 13 richieste mosse da Riyadh, Manama, Il Cairo e Abu Dhabi (tra cui la chiusura di al Jazeera e la cacciata della rappresentanza diplomatica iraniana, oltre al pagamento di non meglio precisati risarcimenti danni).
La giravolta statunitense ha basi solide: all’iniziale plauso del
presidente Trump che con una serie di tweet aveva appoggiato
l’isolamento del Qatar da parte dell’alleato di ferro Riyadh, è seguita
la solita e ovvia realpolitik Usa, ben rappresentata da Tillerson, ex
presidente della Exxon e testa d’ariete della lobby energetica e
petrolifera americana.
Se sottobanco a muoversi è proprio la Exxon – insieme a Total e Shell – che ha aderito ufficiosamente al faraonico progetto qatariota di aumento della produzione di gas liquido del 30% entro il 2024, le relazioni economiche tra Washington e Doha sono troppo fiorenti per metterle in serio pericolo.
Anche se a premere sull’acceleratore è Riyadh: l’interesse saudita per
l’annichilimento del principale avversario interno all’asse sunnita non
fa il gioco di Washington, più interessata a costruire una Nato araba in
chiave anti-Iran che a veder spezzettato il fronte sunnita.
Gli Stati Uniti sono il principale investitore straniero in Qatar e il primo importatore nell’emirato di beni di ogni genere,
macchinari, automobili, strumenti medici, prodotti agricoli: una
ricchezza che fa del Qatar il quarto importatore di beni statunitensi al
mondo.
Oltre 120 compagnie statunitensi sono attive nel paese, per lo più
nel settore energetico ampiamente sviluppato da società americane, sia
per quanto riguarda le infrastrutture petrolifere che quelle per il gas
liquido (di cui il Qatar è primo fornitore al mondo). Dall’emirato
agli Stati Uniti arrivano invece gas naturale, alluminio e
fertilizzanti. L’interscambio, dal decennio scorso, si attesta sui 6,3
miliardi di dollari l’anno in prodotti commerciali.
Senza dimenticare gli investimenti che la petromonarchia ha negli Stati Uniti (l’ultimo accordo prevede l’investimento di 45 miliardi di dollari in fondi sovrani Usa entro il 2021,
denaro che porta con sé un potenziale enorme in termini di occupazione*)
e il ruolo dell’industria bellica (anche qui la più recente intesa è
stata siglata a crisi già esplosa, con la vendita di jet F-15 per un totale di 21 miliardi di dollari).
Alla porta dell’emirato, però, sta anche il nemico numero uno della
Casa Bianca, l’Iran. Dopo aver offerto – insieme alla Turchia – al Qatar
isolato l’invio di beni alimentari e l’utilizzo del proprio spazio
aereo, Teheran punta più in alto. E ieri il ministro degli
Esteri qatariota, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman al Thani, ha espresso
l’interesse a sviluppare una maggiore cooperazione con la Repubblica
Islamica.
A partire dallo sfruttamento del giacimento di gas South Pars,
nel Golfo Persico, su cui ha messo le mani la Total (la stessa che
intende sviluppare la produzione qatariota nei prossimi anni): la
multinazionale francese, dopo la firma dell’accordo pochi giorni fa, si è
assicurata oltre il 50% delle quote, a cui prendono parte anche la
cinese Cnpc e l’iraniana Petropars. Un investimento totale di 4,8
miliardi.
Fonte
* affermazione opinabilissima...
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