Per ragioni di spazio, non posso dare conto di tutti gli articoli e delle argomentazioni dei rispettivi autori, per cui mi concentrerò in particolare sui temi trattati negli interventi di Ernesto Screpanti, Luciano Vasapollo e Giorgio Cremaschi, nonché in quello firmato congiuntamente da Marco Baldassari, Diego Melegari e Stefano Zai.
Mi pare opportuno partire dal ruolo che
l’ossatura ordoliberale dell’architettura comunitaria attribuisce allo
Stato (vedi Melegari, Baldassari e Zai). Contrariamente alla tesi di chi
ritiene di cogliere l’“errore” della politica economica europea nel
ritorno al dogma dello stato minimo, tipico del liberismo classico, e
pensa che tale errore sia correggibile attraverso il ritorno a politiche
neokeynesiane, si insiste giustamente (sulle tracce di autori come
Dardot e Laval) sul fatto che la visione ordoliberale, adottata fin
dalle origini dalla Germania postbellica, nega al contrario la capacità
del mercato di autoregolarsi e affida allo Stato – uno Stato forte
dunque! – il ruolo di definire un quadro giuridico istituzionale, una
vera e propria “costituzione economica”, nel quale i fattori economici
possano esplicarsi correttamente (stabilità dei prezzi, protezione della
concorrenza da sostegni pubblici e interventi “lobbistici” dei corpi
intermedi come i sindacati). La politica non deve dunque compensare gli
effetti del mercato (di qui l’obiettivo di smantellare il welfare) ma
garantire il libero sviluppo di un’economia che – in quanto “economia
sociale di mercato” – si presenta come un vera e propri utopia, una
economia “morale” fondata su un mix di spirito imprenditoriale, valore
comunitario e ordine sociale armonico. Questa funzione di governance
(più che di governo in senso classico) non necessita di legittimazione,
per cui le critiche alla scarsa democraticità delle istituzioni europee,
o alla presunta incompletezza del processo di unificazione politica
cadono letteralmente nel vuoto: l’Unione non è uno stato federale
“incompiuto”, bensì una superstruttura parastatale che ha il compito di
gestire una governance multilivello, una superstruttura rispetto alla
quale i trattati assumono valore costituzionale, funzionano come “una
costituzione senza stato e senza popolo”. Di fronte a tale realtà
l’unico argomento che consente alle sinistre radicali di coltivare
l’illusione riformista di poter democratizzare questa Europa è il dogma
(fedele a una sorta di internazionalismo astratto che sconfina nel
cosmopolitismo borghese) secondo cui il piano sovranazionale sarebbe
l’unico sul quale è possibile rappresentare gli interessi delle classi
subalterne.
Un secondo punto che ricorre in diversi
articoli riguarda la relazione semicoloniale fra la Germania e gli altri
Paesi, mediterranei e dell’Est, dell’Unione e la “necessità” di tale
relazione, imposta dai rapporti di forza fra grandi potenze in conflitto
reciproco sul mercato globale. Il processo di globalizzazione è stato a
lungo trainato (cfr. l’articolo di Screpanti) dalla sostanziale
convergenza di interessi fra Stati Uniti e Cina: da un lato, la politica
americana di espansione della domanda aggregata che alimentava la
crescita di consumi, investimenti e importazioni gonfiando il debito
pubblico e privato (e facendolo pagare agli altri Paesi grazie
all’egemonia del dollaro), dall’altro, il mercantislismo cinese che
sfruttava la politica americana per alimentare i vertiginosi tassi di
crescita del proprio surplus commerciale. La crisi, argomenta Screpanti,
ha rotto questi equilibri, inducendo quasi tutti i Paesi ad adottare
forme di mercantilismo difensivo che tendono a rallentare lo sviluppo,
nella misura in cui rallentano la domanda mondiale di importazioni.
Secondo Screpanti, non è tuttavia corretto parlare di fine della
globalizzazione, in quanto il processo di internazionalizzazione delle
grandi imprese prosegue, anche se entra in contraddizione con il
nazionalismo dei grandi stati. In questo contesto la Germania, il cui
modello di sviluppo è stato fin dall’inizio basto sulle esportazioni,
tende ad accentuare ulteriormente la pressione sugli altri Paesi
dell’Unione imponendo (Cfr. Luciano Vasapollo) una divisione del lavoro
che assegna ai Paesi mediterranei il ruolo di importatori, mentre
trasferisce all’Est il sistema industriale per ridurre ulteriormente il
costo del lavoro. Del resto il mito della convergenza delle economie
nazionali dell’area Ue è tramontato da tempo, di fronte alla forbice che
vede un Nord che cresce rapidamente grazie ai surplus commerciali ,
opposto a un Sud che cresce lentamente, ha elevati tassi di
disoccupazione, debiti pubblici in aumento, bilanci commerciali in
deficit e subisce un processo di deindustrializzazione. Ormai è evidente
che l’euro è lo strumento che ha consentito alla Germania di imporre ai
soci di finanziare i suoi squilibri di bilancio (soprattutto dopo
l’unificazione con l’Est), di costruire un nuovo proletariato
industriale per le sue multinazionali e di esercitare un inedito
colonialismo interno al polo europeo per sostenere le proprie ambizioni
di potenza emergente a livello globale.
Di fronte a tale scenario, che rende
irrealistico qualsiasi progetto di riforma di questa Europa, tutti gli
articoli sostengono l’inevitabilità, per quelle forze politiche che
intendano realmente rappresentare gli interessi delle classi subalterne,
di lavorare per la rottura della Ue anche prendendo in considerazione
l’ipotesi di un’uscita unilaterale (Italexit) del nostro Paese – uscita
che, scrive Screpanti, mentre rappresenterebbe un processo dirompente
per tutta l’Unione, non deve farci dimenticare che implicherebbe un
prezzo elevato da pagare. Nel suo articolo Screpanti spiega con quali
strumenti, a suo parere, sarebbe possibile ridurre entro limiti
accettabili il costo della inevitabile crisi successiva a una rottura.
Non ho qui lo spazio per sintetizzarne le complesse argomentazioni sul
tema. Tema che Vasapollo affronta da un altro punto di vista,
sviluppando la prospettiva della costruzione di un’Europa dei popoli
mediterranei in analogia all’alleanza politico-economica messa in atto
dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina.
Più breve, di taglio più politico, forse
meno ricco di argomentazioni tecnico giuridiche e tecnico economiche ma
decisamente efficace l’articolo di Cremaschi. Qui il tema della crisi
della globalizzazione viene – a mio parere giustamente – affrontato meno
dal punto di vista delle contraddizioni “oggettive” del sistema, e più
da quello della perdita di consenso delle masse popolari nei confronti
delle élite che hanno governato il processo negli ultimi decenni. A
causa della crisi, gli avanzi della ricchezza accumulata non hanno più
potuto essere ridistribuiti, aggravando ulteriormente gli effetti di una
guerra di classe dall’alto che già aveva falcidiato occupazione, salari
e welfare, per cui non è un caso se la rivolta è partita proprio in
quei Paesi – Stati Uniti e Inghilterra – dove quasi mezzo secolo fa è
iniziata la controrivoluzione liberista. Che poi questa rivolta abbia
assunto connotati di destra (senza dimenticare tuttavia il caso
Sanders!), sia stata cioè egemonizzata da forze che affidano ogni
soluzione a un leader, si concentrano esclusivamente sulla lotta alle
caste corrotte, dirottano la rabbia popolare sui migranti ecc. non
toglie nulla al fatto che questo dissenso politico di massa sia il punto
da cui è necessario partire per produrre qualsiasi cambiamento reale.
Le sinistre radicali che continuano ad allearsi alle socialdemocrazie in
via di estinzione, o pienamente convertite al liberismo, si
autocondannano alla ininfluenza più assoluta, viceversa, chi desidera
veramente cambiare le cose deve necessariamente misurarsi con “l’onda
populista”. Perché il vero problema ormai non è se ma come
usciremo dalla globalizzazione. Infine, per quanto riguarda l’Italexit,
Cremaschi invita a non avere paura di affermare che la rottura con la
Ue deve puntare alla sovranità popolare e democratica del nostro Paese, e
ribadisce (punto sul quale mi pare che tutti gli autori del numero
concordino) che la rottura dev’essere concepita come un momento di
transizione verso un nuovo sistema economico e politico “che non è
ancora socialista ma non è più neoliberista”.
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