Difficile svelare il mistero che porta con sé una cultura
massmediatica che procede dissacrando costantemente se stessa e, nel
medesimo tempo, in continua ricerca di nuovi eroi ambiguamente popolari.
La morte di Paolo Villaggio in tal senso fornisce più di un solido
esempio. E’ il sintomo di una perversione che agisce non solo dall’alto
verso il basso, dai grandi media al popolo, ma prorompe soprattutto dal
“popolo” stesso. Nonostante la post-modernità abbia apparentemente
espunto il sacro, questo si impone per altre vie, attraverso altri
canali, inconsapevolmente (per chi lo subisce). La morte dell’attore ha
dato il via al processo di santificazione. Chi avesse osato addentrarsi
nella critica di questo o quell’aspetto del suo lungo percorso
professionale, veniva escluso dalla comunità dei credenti, coincidente, ça va sans dire, col “popolo”.
Persino le critiche positive, se non adeguate alla canonizzazione in
corso, venivano scambiate per bestemmie. Improvvisamente un popolo
cresciuto con le peggiori derive fantozziane del suo percorso iniziava a
discettare della sua amicizia con De André, dei suoi libri(!) o altre
fesserie del genere. Il problema non risiede nella valutazione, più o
meno corretta o avveduta, che si può avere su questo o quel personaggio
pubblico, ma l’idea stessa che questo non possa essere sottoposto a
critica altrimenti si è “distanti dal popolo”, “intellettualoidi”,
nonché – immancabile per i lettori del bignami radical – “zdanoviani”.
Una parabola che in realtà si è potuta vedere anche in occasione del
concerto di Vasco Rossi lo scorso primo luglio. Anche qui, del fatto in
sé (cioè del concerto e di Vasco) ci interessa poco. Ma la gazzarra
scatenatasi al primo accenno di critica, qualsiasi essa fosse, lascia
interdetti. Chiunque avesse avuto l’ardire di sollevare il minimo punto
di vista alternativo a quello della massa dei credenti, veniva
ignominiosamente espulso dal novero degli esseri umani, appartenente di
fatto all’élite, anzi, alla casta, qualsiasi essa fosse: dei “politici”,
degli “intellettuali”, o magari alla casta degli zdanoviani, l’unica
probabilmente ancora prospera e intoccabile.
Eppure questo bisogno collettivo e trasversale di aggrapparsi a
qualche certezza “nazional-popolare” (mai termine fu più abusato e
ingiuriato) sconfina in questa sorta di ri-sacralizzazione
dell’orizzonte narrativo pubblico. L’idea che questa sacralizzazione
funziona solo in quanto trasversale, ambigua, pacificante, e proprio per
questo da sottoporre a critica chiunque venga investito di
tale beatificazione post-mortem, non scalfisce le certezze di questo
“popolo” “finalmente libero” di scegliersi i suoi santi e eroi. Non
incrina tale certezza neanche il fatto che questi santi siano tali solo
perché così presentati da quel circuito culturale-mediatico che abolendo
falsamente il sacro in realtà lo riproduce costantemente sotto altre
forme. Questi eroi sono tutto fuorché “popolari”, men che meno frutto di
processi mitopoietici che li impongono all’attenzione del grande
pubblico. Vengono, al contrario, prescritti dall’alto, ma presentati
come genuinamente “dal basso”. E’ così che va il mondo, potremmo
aggiungere, se non fosse che ormai a cadere per prima in questo insano
bisogno di sacro è gran parte di quella sinistra culturale
definitivamente inchinata di fronte alle beatificazioni mainstream. Scambiando il mainstream con
il popolare, i primi guardiani dell’ortodossia (un tempo, almeno,
esercitata, oggi subita) sono coloro che a parole menano vanto di
combatterla. Fungendo così da megafono (peraltro gratuito) per ogni
indegna operazione di egemonizzazione capitalistica del proprio
orizzonte culturale.
Si potrebbe fare un facile confronto, leggendo il modo in cui alcuni
giornali di destra, quindi non sospettabili di assecondare le velleità
progressiste dei loro lettori, hanno trattato la scomparsa di Villaggio
con la figura di De André. Viene presentata l’amicizia tra Villaggio e
De André come prova della precoce genialità del Villaggio stesso:
«Villaggio, nato a Genova da una famiglia altoborghese, aveva già
mostrato di che (ottima) pasta era fatto, scrivendo in combutta con
l’amico e complice degli anni giovanili Fabrizio De André,
l’irresistibile testo della canzone Carlo Martello ritorna dalla
battaglia di Poitiers. Un irriverente brano di stampo goliardico, che
fece fremere di sdegno i benpensanti» (qui).
Peccato che sono gli stessi giornali che hanno tentato di demolire
quotidianamente l’opera del cantautore genovese, presentato come «il Dio dei bamboccioni», un «ribelle di regime»,
spiegandoci che «ci sono voluti oltre quarant’anni per infrangere uno
dei più granitici tabù del sistema musicale italiano: Fabrizio De André
non è il mito che ci hanno fatto credere dopo la morte» (qui).
Ecco, questi stessi giornali oggi edificano il mito trasversale di
Villaggio (anche) perché «amico di De André», fatto questo che al
contrario dovrebbe insospettire i lettori del Giornale ma che,
nella costruzione artificiosa e beatificante, scompare in una pappa
falsamente “nazional-popolare”, in realtà rigidamente disciplinata.
Neanche un anno fa moriva Dario Fo, altro mito popolare – al pari di
De André. Ma proprio perché la “mitizzazione” di Dario Fo era imposta, e
non subita, dalle classi popolari, ecco che Libero, lo stesso giornale che oggi glorifica Paolo Villaggio, si trovava afono e spiazzato, tanto da ricordarlo così: «lo smemorato della Repubblica». Col corpo ancora caldo, quando persino la platea clericale dei suoi lettori avrebbe ceduto al tic della misericordia, Libero non
poteva far altro che insultare la memoria del grande attore e regista
milanese. Perché Dario Fo, come Fabrizio De André, non riesce ad essere
pacificato, dato che la loro “sacralizzazione” non è proceduta dall’alto
verso il popolo, quindi disciplinata, ma il suo contrario, dunque
ingestibile. Sono due esempi prossimi a Paolo Villaggio: De André perché
costantemente tirato in ballo in questi giorni, Fo perché recentemente
scomparso. Ma se ne potrebbero fare di altri, il discorso non
cambierebbe. Questa discrasia, lungi dall’essere colta, viene anzi
rigettata al mittente col solito corollario di bestialità
“anti-intellettualistiche”. Rimane la domanda del perché permanga questa
urgenza del sacro, sebbene declinata in funzione pacificante. O forse
proprio per questo.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento