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01/03/2018

La scomparsa di Domenico Iervolino

La morte di Domenico Iervolino in un certo senso sancisce la fine di un’epoca, a cinquant’anni dal Sessantotto. Egli era uno dei rappresentanti più significativi di quel processo di contaminazione tra la tradizione rivoluzionaria e tutta un’altra serie di universi di pensiero e di pratiche che caratterizzò il decennio di lotte, di speranze e di delusioni che al Sessantotto era seguito.

Fu fondatore con Livio Labor, Giovanni Russo Spena ed altri del Movimento Politico dei Lavoratori, un partito nato all’interno delle Acli e che voleva rappresentare il dissenso cattolico nei confronti della DC. Dopo le elezioni del 1972 a cui questo partito aveva partecipato con scarso successo, la maggior parte dei suoi aderenti confluì nel Partito Socialista mentre Domenico Iervolino, Giovanni Russo Spena e il resto della minoranza fondarono Alternativa socialista (che si poneva il compito di far convergere la tradizione politica del movimento operaio con il dissenso cattolico). Questa a sua volta confluì nel Nuovo Psiup di Vittorio Foa per fondare sempre nel 1972 il Pdup (Partito di Unità Proletaria). Quest’ultimo poi nel 1974 si unì con il gruppo del Manifesto per costituire il Pdup per il Comunismo.

Nel 1977 il Pdup per il Comunismo si divise e Domenico Iervolino con altri aderì nel 1978 al costituente partito di Democrazia Proletaria (che dal 1975 era un cartello elettorale di organizzazioni della Nuova Sinistra). La militanza in Democrazia Proletaria, caratterizzata dalla sua elezione a consigliere regionale in Campania dal 1979 al 1987, durò sino al 1991, anno in cui Democrazia Proletaria (dopo aver subito la scissione dei Verdi Arcobaleno) confluì in Rifondazione comunista, dove Domenico Iervolino divenne Assessore all’Educazione del Comune di Napoli e responsabile nazionale per l’università.

Si tratta dunque di un’attività politica intensa e scandita da un fermento che era proprio di un’epoca in cui la sinistra sapeva dividersi ma anche continuamente ricomporsi e dove piccole formazioni con appena poco più dell’1% dei voti potevano influenzare la vita politica del paese (Dp indicendo nel 1990 un referendum sull’estensione dell’Articolo 18 costrinse l’allora governo a promulgare una legge che prevedeva almeno un indennizzo per i dipendenti delle piccole imprese licenziati senza giusta causa), grazie ad un sistema elettorale molto più democratico.

Domenico Iervolino di tutto questo fermento e di tutta questa contaminazione fece un motivo di pensiero: allievo di Pietro Piovani e docente di Filosofia del linguaggio all’Università di Napoli, egli intraprese molteplici letture ermeneutiche di pensatori spesso trascurati dal mainstream filosofico e cercò di farle interagire con la sua pratica politica.

Egli è stato in primo luogo uno dei maggiori interpreti italiani del pensiero filosofico di Paul Ricoeur e con il libro “Il Cogito e l’ermeneutica” intuisce che il centro della filosofia di Ricoeur è proprio dato dalle peripezie del Cogito e dal suo squilibrio e dalle esigenze dell’ermeneutica di tentare la mediazione impossibile tra la ricerca cartesiana della sicurezza e l’attenzione verso l’altro.

Partendo da Ricoeur, Iervolino individua nel processo di traduzione “un luogo teoretico decisivo in cui potesse venire alla luce il senso del linguaggio” e al tempo stesso la possibilità di un “fondamento nonviolento del legame sociale”, procedendo “in direzione di un’etica, di una pedagogia, di una politica del confronto interculturale tra lingue, culture, religioni e visioni del mondo”.

Iervolino ha studiato anche il pensiero di Giulio Girardi, filosofo e teologo della Liberazione e studioso dei movimenti di liberazione in America Latina e lo considera rappresentante di una teoria della prassi liberatrice che sia anche “criterio discriminante per una comprensione nuova della propria fede da parte dei credenti e per un incontro coi compagni non credenti che sia riconoscimento reciproco e non riproposizione di vetuste diffidenze e incomprensioni”.

Qui Domenico Iervolino in un certo senso giustifica e rivendica la sua militanza nel movimento dei cristiani per il socialismo, movimento nato in ambito latinoamericano dopo il golpe di Pinochet in Cile nel 1973.

Inoltre Iervolino studia il pensiero di Jan Patocka, fenomenologo appartenente alla dissidenza cecoslovacca durante e dopo la Primavera di Praga e lo considera filosofo “resistente” per il quale “la vita umana in tutte le sue forme contiene il germe di una vita nella verità, verità finita, che non vuol dire verità relativa, ma verità da riconquistare sempre nella lotta quotidiana contro tutti i tentativi di ridurre l’uomo a cosa, ad oggetto manipolabile”.

Infine Iervolino elabora, prendendo spunto da André Tosel, il comunismo della finitudine ossia una ricerca che tenti di stabilire “una reciproca fecondazione tra fenomenologia ermeneutica, pensiero critico e teologia della liberazione”, cercando quindi di rileggere Marx alla luce di un nuovo paradigma, operazione non revisionista ma che tenti secondo Iervolino di scavare più a fondo. Dunque “non un tradimento ma una fedeltà più autentica e durevole”.

Siamo su scenari molto lontani dalla riflessione che cerchiamo di fare noi della Rete dei Comunisti, forse necessitati a guardare più da vicino le sbarre della gabbia d’acciaio del capitale.

Tuttavia nell’analizzare questa grande avventura intellettuale ed umana (condotta con una modestia che forse ha alimentato un silenzio molto superficiale sulla sua figura) non possiamo che essere ammirati dal fatto che il pensiero e la pratica rivoluzionaria hanno quasi costretto uomini che provenivano da altri luoghi del pensiero a rivedere in modo originale i propri presupposti e ad arricchire con suggestioni inedite il percorso di un movimento che ambisce ad abolire lo stato di cose presenti.

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