di Chiara Cruciati
Alla fine l’ordine è
arrivato: ieri in Gazzetta Ufficiale il primo ministro egiziano Ismail
ha fatto pubblicare un decreto che autorizza la Nuca, la New Urban
Communities Authority, a costruire una nuova comunità sull’isola Warraq,
sul Nilo. Un’isola (la più grande del fiume, casa di 60mila
persone) intorno alla quale il governo del Cairo ha messo gli occhi da
tempo, attraverso demolizioni di case e confische di terre, provocando
lo scorso anno le dure proteste degli abitanti.
Come successo in passato, il decreto – che riconosce alla Nuca pieni
poteri sull’isola – mantiene un clima di mistero e dunque
preoccupazione: una mappa indica le coordinate della nuova
comunità, come riporta l’agenzia indipendente Mada Masr, che va ad
occupare quasi l’intera area dell’isola. Ma non dà dettagli sul futuro
di chi in quell’isola ci vive, egiziani poveri costretti in baracche e case costruite a mano, pochi servizi, una rete fognaria scadente, nessuna clinica.
Tutto era cominciato un anno fa con un discorso pubblico del
presidente al-Sisi: “Non menzionerò il nome dell’isola, ma uno slum ha
cominciato a crescerci dentro e la gente costruisce illegalmente. Se ci
sono 50mila case, dove vanno i loro rifiuti? Nel Nilo da dove noi
beviamo? Affrontare quella questione è una priorità”. Il
presidente faceva riferimento a una legge del 1988 che regola lo
sviluppo urbanistico lungo il Nilo: le sue rive sono quasi del tutto
occupate da costruzioni, solo 27 km su 99 sono tuttora liberi. Ma buona
parte dei chilometri costruiti non sono occupati da case private, ma da
ministeri ed edifici governativi e amministrativi.
Meno di un mese dopo la polizia si era attivata: poliziotti e
funzionari pubblici si erano presentati a Warraq con in mano 700 ordini
di demolizione, di cui solo tre sono state portate a termine. Immediata
la protesta dei residenti, già marginalizzati e dimenticati
dallo Stato. Il bilancio degli scontri fu di un morto (il giovane Sayed
Ali al-Gizawy), 19 feriti tra gli abitanti e 37 tra i poliziotti e
decine di arresti. Nelle settimane successive le proteste sono
continuate, con marce ogni venerdì, al grido “Contro lo sfollamento” e
“L’isola non si vende”.
Ne è seguita la nascita di un comitato locale, formato dalle
famiglie di Warraq, a difesa dell’isola e dei propri diritti, per dire
al resto del paese che non esisteva alcuna opposizione allo sviluppo ma
ne esisteva uno contro lo sfratto. Chiedevano tre cose:
risarcimento alla famiglia del giovane ucciso, la legalizzazione della
posizione degli abitanti e la pubblicazione dei piani governativi. In
alcuni incontri con l’Afea, l’Autorità ingegneristica delle Forze Armate
– che in Egitto gode dei migliori appalti nazionali a rafforzare il
potere economico dell’esercito – i funzionari avevano rassicurato i
residenti parlando di demolizioni solo di edifici illegali e di
compensazioni post-demolizioni e il trasferimento in una zona
residenziale, secondo Mada Masr mai specificata: “Tutti gli
edifici sulle rive dei canali d’acqua vanno rimossi – aveva aggiunto
al-Sisi – Si, ci sono residenti. Dovremo trovare una soluzione per loro,
ma devono essere rimossi”.
Al contrario il quotidiano egiziano al-Masry al-Youm, citando fonti anonime, aveva rivelato l’intenzione di al-Sisi di fare dell’isola un centro economico, mentre il giornale al-Shorouk aveva pubblicato i dettagli del piano di Nuca, ovvero trasformare l’isola in un hub turistico e culturale ribattezzato Horus, “un’isola verde, sostenibile e contemporanea” con hotel, parchi, resort. Libera,
dunque, da quelli che il premier Ismail ha definito squatter, occupanti
illegali, ricevendo la risposta a stretto giro degli abitanti che
intendono provare – documenti alla mano – la proprietà della terra: alcuni l’hanno acquisita con l’equivalente locale dell’usufrutto, altri l’hanno registrata per successione.
È qui che nel tempo si sono trasferiti i migranti interni, gli
egiziani provenienti dalle zone rurali del paese, a Warraq come in altre
isole del Nilo, zone informali rispetto a quelle più strutturate del
resto della capitale. Con il tempo, però, la presenza di 60mila
persone ha portato alla nascita dei primi servizi: tre scuole, una
stazione di polizia, un impianto idrico, tutti elementi che secondo i
residenti rappresentano la legittimazione governativa dell’insediamento.
Egiziani poveri, contadini, operai, che non intendono andarsene
perché non hanno altro luogo dove andare e che ora sono finiti in mezzo
alle mire di sviluppo governative, le stesse che hanno spinto Il Cairo
ad aderire con entusiasmo alla costruzione della new city Neom, in
Arabia Saudita, Giordania ed Egitto e a lanciare la creazione di New
Cairo, un’appendice di lusso della capitale a ovest dell’attuale. Il
tutto mentre il paese è soffocato da una dura crisi economica, aggravata
dalle politiche di austerity imposte dall’Fmi e che solo ieri si sono
tradotte nell’incremento di oltre il 40% delle tasse per l’acqua.
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