Alla fine del 2017 la casa editrice Add ha pubblicato in traduzione italiana il terzo volume della graphic novel dell’artista cinese Li Kunwu, intitolata Una vita cinese. 3. Il tempo del denaro. Nei primi due episodi l’autore, figlio di un dirigente comunista maoista, e lui stesso convintamente fiducioso nel partito, valorizza la missione emancipatrice della rivoluzione cinese, senza tuttavia nascondere in certi passaggi cruciali elementi di critica nella gestione della propaganda e della dissidenza da parte dei vertici di partito.
La sua vicenda associa alla ricostruzione di una dimensione esistenziale individuale – grazie anche al peculiare punto di osservazione fornitogli dalla vicenda familiare – la macrostoria, cioè la storia di una Cina che abbandona tradizioni e anticaglie da museo per abbracciare il grande sforzo del lavoro produttivo e affrancarsi da secoli di analfabetismo, sottomissione e miseria. Nei primi due volumi di questa incredibile rappresentazione narrata, si passa dall’infanzia all’età adulta, da un’epoca all’altra dell’evoluzione politica cinese, con tutte le sue contraddizioni.
Con questo ultimo tassello, invece, la storia si chiude, eppure non si conclude. Ci troviamo di fronte infatti a una riflessione profonda che travalica i pur amplissimi confini cinesi. La storia pone a noi tutti la necessità di chiarire la nostra posizione rispetto all’evoluzione del capitalismo, e alla sua stessa essenza.
La vicenda raccontata in questa volata finale, che descrive l’arco cronologico che congiunge il 1980 all’oggi, presenta dunque una trama drammaticamente inconsistente, a differenza di quanto accadeva nei volumi precedenti. E non è un caso. La storia cinese che qui è presentata, è solo una storia di soldi e di sviluppo. Viene messa sulla scena, senza pietà per il lettore, in una sequenza di 269 pagine illustrate, la più cruda e insaziabile corsa all’arricchimento personale; si mostrano i talenti individuali di chi è riuscito, inebriato dal clima e dalle condizioni che l’hanno reso possibile, a modificare la propria condizione di vita dal semi-accattonaggio alla proprietà di una catena di ristoranti.
Ma in qualche passaggio l’autore sembra voler far emergere anche una nota malinconica, quando non nasconde la mutazione antropologica e assiologica imposta da questa irrefrenabile corsa allo sviluppo. Accumulare risorse da investire in borsa può significare per una giovane massaggiatrice dedicarsi alla prostituzione, per qualcun altro affiliarsi a organizzazioni di malaffare, e non pochi sono gli esempi di scivolamento nell’ombra cupa della criminalità.
Fino a un certo punto, l’autore sembra voler dire e ammettere che questa frenesia per l’arricchimento personale costituisce un ingranaggio cui non si riesce a sfuggire, una volta innescato. La febbre dell’oro appare come un’irresistibile dinamica a orologeria. Nella dimensione dello sviluppo si entra o non si entra. Non sono concessi tentennamenti. Accedervi significa tuttavia correre il rischio – che è poi certezza – di uno smarrimento della propria autenticità.
Tuttavia, le tradizioni cinesi – per contrappeso – non sono più derise o guardate con sospetto, come ai tempi di Mao, bensì rappresentate come paesaggio e genti dell’entroterra, immerse in un orizzonte di autenticità smarrita, in qualche modo contribuiscono a formare uno sfondo verso il quale si avverte un sentimento di nostalgia. Una radura incontaminata dell’anima, che è stato necessario tradire.
“Necessario”, questo è il punto nevralgico. Nelle ultime pagine Li Kunwu deve infatti dire la sua parola definitiva. E non a caso, con poche battute e qualche disegno, ne emerge una conclusione che deve poter aprire una riflessione critica sul significato della sinistra, sui suoi valori e sul suo declino, nella fase attuale. Quel tradimento di autenticità, quell’egemonia non solo sociale, ma anche psichica, del mercato, non era e non è evitabile. È stato giusto, ed è giusto accelerare, per trascinare il popolo cinese fuori dall’indigenza e dall’ignoranza. Una massa enorme di individui è stata sottratta ai capricci della natura e dei dominatori stranieri. Con tutte le sue contraddizioni, pur avendo travolto l’umano in molte delle sue dimensioni d’essere, lo sviluppo risponde a un bisogno reale, e in fondo anche a un dovere etico riconoscibile.
Lasciando sullo sfondo la questione inerente l’effettivo superamento o meno delle condizioni di miseria, da parte dei contadini e operai cinesi, occorre domandarsi se Li Kunwu non ci conduca a mettere al centro della nostra analisi quello che è forse il punto cruciale di quel che anche in Europa oggi viene individuato come “crisi della sinistra”.
Nelle società a capitalismo avanzato, come ben segnalato da Marcuse, grazie all’avanzamento tecnologico, impiegato soprattutto nei settori produttivi, si è pressoché riusciti a soddisfare in gran parte i bisogni primari delle popolazioni, ma a tal fine, per non interrompere il proprio flusso produttivo e non cadere su sé stesso, il sistema di sviluppo è costretto a generare e indurre sempre nuovi bisogni, per poi controllarli. Tale sistema, capace di questa fuoriuscita dai bisogni primari, porta con sé l’idea della sua stessa ineluttabilità. Come dire? Non possiamo certamente negare che sussistano ampie fasce di povertà nei paesi più sviluppati, e che tale sviluppo determini forme di ultra-impoverimento in altre aree del pianeta, e neanche che sussistano stratificate forme di oppressione e controllo sociale. Tuttavia, nelle società che hanno ormai raggiunto un sistema di organizzazione industriale, finanziario e amministrativo molto sviluppato, esiste in generale una garanzia sociale generalizzata di emancipazione da quella condizione di miseria cui ampie fasce della popolazione europea erano esposte nei secoli addietro, come correlazione naturale con condizioni climatiche, epidemie e carestie.
La dimensione dominante, la sola dimensione concepita in questa società, è quella della produzione permanente. L’universo simbolico è quello dell’efficienza tecnica. Ed è talmente potente da aver impregnato di sé non solo la cultura liberista, ma anche quella comunista. Si pensi al sistema sovietico, oppure – per altri versi – a quello cinese.
Resta il dilemma: è davvero inevitabile la cultura dell’efficienza? Fino a che punto resta un valore, il sacrificio della dimensione umana determinato da questo processo? Lo smarrimento della propria autenticità è un effetto reale della competizione capitalistica e del culto performativo dell’efficienza, o si tratta solo di un rischio immaginato da intellettuali malinconici?
La sinistra moderata sembra imbrigliata nell’adozione a pieno titolo di una mentalità pragmatica capace di “ottenere risultati”, attraverso una gestione delle dinamiche amministrative; la sinistra rivoluzionaria occupa posizioni del tutto marginali non solo nel quadro politico, ma anche nelle strutture sociali e nell’immaginario collettivo. Entrambe le articolazioni di questa tradizione politica emancipatrice sembrano aver smarrito qualcosa, e cioè un quadro assiologico definito, unitamente alla capacità di conformare le proprie scelte, e prima ancora delle scelte, le proprie dichiarazioni, a quell’orizzonte.
La difficoltà della gestione di questa fase, che dunque segna il processo con il carattere del declino, è a mio parere una resistenza diffusa, anche tra gli intellettuali, a riconoscere la dimensione etica della pratica politica (ridotta a mera tecnica), che è implicita nella storia della sinistra, e che propongo di far riaffiorare. Anzi, di rivendicare con forza. Non si tratta di moralismo. Ma un’etica vicina, una morale di prossimità, che non anteponga l’obiettivo finale al negoziato imminente, come invece accade nel fumetto cinese.
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