Anche la Nato non è più quella di una volta... La crisi della Turchia, a un occhio distratto, è stata presentata come una “semplice” crisi valutaria – la moneta si è svalutata del 20% praticamente in un giorno, contagiando le banche europee che hanno maggiore esposizione verso quel paese – aggravata da un regime reazionario incapace risolvere i suoi molti conflitti interni (sia sociali che politici, a partire dallo storico indipendentismo curdo).
Questo editoriale apparso su Milano Finanza, a firma di Guido Salerno Aletta, fornisce invece informazioni più dettagliate, che allargano la conoscenza del problema “disturbando” molti dei luoghi comuni che dominano il ridicolo mercato dell’informazione italiana.
Partiamo dai luoghi comuni in materia di economia, quelli per esempio tanto cari alla coppia Alesina-Giavazzi, da cui tutti gli altri copiano frasi senza senso. Avete presente il rapporto debito/Pil o quello deficit/Pil? Quelli, insomma, che se non stanno sotto il 60% (il debito) o tendenti azero (il deficit) l’economia va a rotoli e la credibilità internazionale del paese pure?
Bene. La Turchia, da questo punto di vista, sta benissimo. Il debito pubblico è sotto il 28%, meno della metà di quanto previsto dai manuali di economia neoliberista. Il deficit è sotto il 3% persino in un anno di crisi come questo, l’altro anno hanno sfiorato il mitico pareggio di bilancio.
I tassi di crescita sono stati “cinesi” per tutto il decennio (tra 4 e l’11% annuo). Insomma, un paradiso stando a quegli standard. Il problema è che gli investimenti pubblici e privati sono avvenuti a debito, ricorrendo appunto a prestiti da banche estere e, soprattutto, denominati in valuta estera (euro o dollari). Il che espone ad oscillazioni incontrollabili in caso di movimenti delle quotazioni della moneta dipendenti dalle fluttuazioni “dei mercati”. La lira turca, che ancora nel 2012 veniva scambiata con 50 centesimi di euro, oggi vale meno di un terzo di quella cifra. E quindi i debiti denominati in euro sono cresciuti in proporzione inversa.
Per non dire del deficit commerciale, visto che l’import supera costantemente l’export.
Eppure, proprio oggi, Erdogan si sente obbligato a spiegare che “commerceremo in valute locali con i nostri maggiori partner Cina, Russia, Iran e Ucraina”. Abbiamo sottolineato le valute per far notare che euro e dollaro sono esclusi; mentre nell’elenco dei “maggiori partner” sono scomparsi Usa ed Unione Europea.
A questo tipo di problemi si aggiungono quelli “politico-economici”, come le decisioni di Trump sui dazi, che complicano parecchio le esportazioni turche.
Non per ultime ci sono le isterie geopolitiche innescate dal “sultano” Erdogan – l’avventura militare in Siria, le tensioni con l’Iraq, quelle con gli Usa che in loco hanno alleanze praticamente opposte.
Un po’ troppi problemi per un paese che ha velleità da media potenza “autonoma” ma è inserito in un sistema di alleanze militari che non consentono di nutrire grilli nella testa. Al tempo stesso, il “nuovo corso” statunitense sta destabilizzando l’ordine mondiale che proprio gli Usa avevano costruito su misura per i propri interessi, a partire dal 1989.
Neanche la Nato, dunque, è più una "assicurazione".
Da qualsiasi parte la prendiate, la scena globale è un festival di “cigni neri” che si sono alzati in volo. Quelli che predicano “austerità” come via maestra per raggiungere la “stabilità finanziaria” sono al tempo stesso uno degli allevatori di “cigni neri” e tra i massimi truffatori in azione.
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Turchia: vittima di una crescita troppo forte, finanziata in modo non marginale a debito dall’estero, incapace di riassorbire la disoccupazione e soprattutto di sanare uno squilibrio strutturale dei conti con l’estero. E’ una crisi del tutto simile a quella spagnola del 2011, senza però avere la caratteristica di quest’ultima, determinata dall’indebitamento delle banche con l’estero usato per finanziare la bolla immobiliare.
Il problema, ancora una volta, non sono state le finanze pubbliche in disordine: il deficit annuo non è mai andato sopra il 2,9% del pil, percentuale che sarebbe raggiunta solo quest’anno dopo essere stata sempre intorno al 2,3% sin dal 2012, mentre addirittura l’anno prima si era sfiorato il pareggio di bilancio. Anche il debito pubblico di Ankara è sempre rimasto a livelli ultra rassicuranti, secondo gli standard previsti dal Fiscal Compact: è stato ridotto costantemente a partire dal 2009, quando era pari al 43,8% del pil, per arrivare al 27,8% di quest’anno.
Il ritmo di crescita del pil turco è stato paragonabile solo a quello della Cina: +8,5% nel 2010, +11.1% nel 2011, +4,9% nel 2012, +8,5% nel 2013, +5,2% nel 2014, +6% nel 2015, +3,2% nel 2016, +7% nel 2017, +4,1% quest’anno. La enorme differenza con la Cina è stata rappresentata dai conti esteri, strutturalmente negativi: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti è sempre stata passiva sin dal 2002. Negli anni della crisi la situazione è continuamente peggiorata: il picco negativo fu toccato nel 2011, quando il saldo fu di -74,4 miliardi di dollari, pari al -8,9% del pil. Nonostante il miglioramento di circa un punto di pil annuo realizzato da allora fino al 2015, quando i valori si assestarono rispettivamente a -32,1 miliardi di dollari, pari -3,7% del pil, successivamente si è verificato un nuovo trend di peggioramento, con il risultato negativo previsto per quest’anno in -49,1 miliardi di dollari, corrispondenti al -5,4% del pil. In totale, tra il 2008 e quest’anno, il saldo negativo della bilancia dei pagamenti correnti è stato di 486 miliardi di dollari, accumulando anno dopo anno una percentuale sul pil pari al 57%.
La posizione finanziaria internazionale netta della Turchia è contestualmente peggiorata: nell’arco di un decennio, le passività totali verso l’estero sono passate da 282 miliardi di dollari del gennaio 2016 a 683 miliardi di dollari del dicembre 2017. Parimenti, si è triplicato il saldo passivo, passato da -161 miliardi di dollari a -454 miliardi.
La crescita degli investimenti è stata tumultuosa: a partire dal 2011, la loro percentuale annua sul pil non è mai scesa al di sotto del 22%, arrivando quest’anno al picco previsto del 31,3%. Il risparmio nazionale, pur estremamente elevato essendo sempre oscillato tra il 21% ed il 26% del pil, non è stato però sufficiente a finanziarli integralmente: il differenziale è stato coperto con il ricorso ai capitali esteri che hanno fronteggiato anche il gap della bilancia dei pagamenti correnti. In totale, tra il 2008 e quest’anno, la quota di investimenti annui non coperti con il risparmio interno è stata pari nel complesso a circa il 55% del pil.
La svalutazione della lira turca non è stata in grado di compensare lo squilibrio dei conti con l’estero, ma ha alimentato l’inflazione interna. Per contrastarla, sono stati aumentati inutilmente i tassi di interesse. Occorreva mettere un freno agli impieghi, non limitarsi ad aumentarne il costo.
Ora, l’Amministrazione americana ha raddoppiato i dazi sulle importazioni dalla Turchia, portando quelli sull’alluminio al 20% ed al 50% quelli sull’acciaio: la svalutazione della lira turca sarebbe stato uno strumento distorsivo del mercato. C’è dell’altro. La Turchia è stata, insieme all’Argentina, l’ospite d’onore all’ultima riunione dei Brics: una alleanza antitetica agli Usa. Ankara spera, o forse si illude, di ricevere un aiuto finanziario da parte della Cina per superare lo stallo della sua moneta sui mercati e la manifesta ostilità americana.
La tensione con gli Stati Uniti è salita di continuo: di recente, a causa dell’imposizione, da parte di Washington, di sanzioni ai danni dei ministri turchi della Giustizia e dell’Interno per il caso Brunson, il pastore cristiano evangelico della Carolina del Nord detenuto in Turchia dall’ottobre 2017 con l’accusa di spionaggio e terrorismo, per avere legami sia con il partito filo curdo PKK, sia con la organizzazione terroristica FETÖ, sostenuta dal predicatore islamico Fethullah Gulen, che Ankara considera responsabile del fallito tentativo di golpe del 15 luglio 2016. La Turchia ha replicato, imponendo sanzioni simmetriche nei confronti di due alti funzionari americani.
L’intervento autonomo di Erdogan in Siria, a fianco della Russia nonostante qualche screzio, non è garbato agli Usa. I Peshmerga, forza militare del Kurdistan irakeno, vengono sostenuti da Washington ma combattuti da Ankara: il pericolo di una secessione territoriale è sempre stata un pericolo per l’integrità della Turchia. Parimenti, non sono piaciuti agli Usa gli ammiccamenti sul Blue Stream per portare gas russo in Europa passando per il Mar Nero. Ancor meno deve essere andata giù la preferenza espressa nello scorso mese di aprile alla fornitura di missili russi SS-20 rispetto ai Patriot statunitensi.
A partire dal fallito colpo di stato dell’estate 2016, i rapporti si sono progressivamente deteriorati. Anche la Turchia è nella morsa di uno scontro geopolitico globale: ogni mezzo per combattersi sembra ormai divenuto lecito.
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