Le stagioni si alternano, è arrivata la primavera, ma c’è una specie che non va mai in letargo: sono i terroristi del debito pubblico, quelli che ci ripetono ogni giorno – come un mantra – che stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità, che dobbiamo stringere la cinghia, fare sacrifici, perché c’è il debito pubblico che incombe sul futuro di ognuno di noi. Il 26 marzo scorso è stata la volta di Roberto Rho che, dalle colonne di Repubblica, grida l’allarme: “Tagli a cantieri, scuola e sanità, ecco il conto per gli italiani”.
Secondo l’articolo, uno dei danni principali dell’elevato debito pubblico è la spesa per interessi che l’accumulazione di quel debito impone. Proviamo ad analizzare l’argomento usato da Repubblica. Indebitarsi costa, e più cresce il debito, più cresce la spesa per interessi: fin qui, siamo tutti d’accordo. Dove sta il problema? Ci dice Rho che la spesa per interessi sottrae risorse ad altri, più nobili, impieghi: servizi ai cittadini, investimenti pubblici, sanità, istruzione e così via. In sostanza, ogni euro speso per pagare gli interessi sul debito sarebbe sottratto a “cantieri, scuola e sanità”. Verissimo, ma l’autorevole quotidiano liberista dimentica di spiegare perché questo avviene: tale vincolo è effettivamente operativo nell’Unione Europea in virtù dei Trattati che impongono precisi limiti alla spesa pubblica in deficit. Dati i vincoli europei, che determinano rigorosamente i limiti alla spesa pubblica, ogni euro di spesa pubblica per interessi non può che sottrarre risorse agli altri impieghi. Ma si tratta di un vincolo tutto politico, derivante dalla struttura istituzionale entro cui il debito pubblico è accumulato, e non è dunque un problema connesso all’accumulazione di debito pubblico in sé: fuori dalla gabbia europea, un elevato debito provocherebbe una più alta spesa per interessi senza precludere una più alta spesa sociale, perché non vi sarebbe il tetto al deficit pubblico che sta soffocando le economie europee. Per finanziare una spesa in deficit sempre crescente, fuori da questo contesto, ci si potrebbe liberamente rivolgere ad una banca centrale capace di finanziare il debito pubblico con creazione di moneta. Al contrario, la Banca Centrale Europea ha sempre subordinato il finanziamento del debito pubblico dei paesi europei alla rigida esecuzione delle politiche di austerità: è il ricatto del debito che ha messo in ginocchio la Grecia e tutta la periferia europea. Il trucco dei terroristi del debito sta dunque in quello che non ci dicono: se la spesa per interessi grava sui bilanci degli Stati dell’Eurozona, Italia compresa, è perché la gabbia nella quale ci troviamo è costruita apposta per limitare il più possibile l’intervento dello Stato nell’economia. Non ci dicono che il debito pubblico serve proprio a finanziarli, “cantieri, scuola e sanità”, e che i soldi sottratti alla spesa sociale ce li nega l’Europa con i suoi Trattati.
Vediamo poi che l’articolista si dimostra preoccupato per la lunga sequela di anni anche recenti nei quali l’Italia ha visto crescere il rapporto tra debito pubblico e Pil, al 2019 oltre il 130%, lasciando intendere che continuiamo a vivere al di sopra delle nostre possibilità alimentando il mostro del debito.
Anche qui troviamo un ribaltamento della realtà. L’Italia è da 25 anni ingabbiata in una serie ininterrotta di avanzi primari – cioè entrate che superano le uscite al netto degli interessi – avanzi che sono tra i maggiori responsabili della estremamente flebile dinamica della domanda aggregata. Con politiche fiscali restrittive sottraiamo risorse all’economia, ed è proprio per questo che il fatidico rapporto debito/Pil continua a salire. Il ragionamento convenzionale è il seguente: se mediante l’austerità limito la crescita del numeratore di quel rapporto, il debito, e il Pil nel frattempo cresce (aumenta cioè il denominatore) perché i mercati riprendono fiducia ed investono, questo farà scendere il rapporto tra debito pubblico e Pil. Se però ci rendiamo conto che la spesa pubblica è fonte di crescita, capiamo allora come il taglio di quest’ultima non possa lasciare invariato il Pil. Esso infatti risente fortemente dello stimolo pubblico, e se quest’ultimo viene a mancare la caduta del deficit imposta dall’austerità fa cadere con sé il prodotto stesso. Ed ecco che, inevitabilmente, il rapporto debito/Pil sale invece di scendere, e la realtà che stiamo vivendo acquisisce tutt’altro significato. La presenza di un rapporto debito/Pil al 130% non è più, come ci raccontano, quel dramma ineluttabile che opprime l’economia malgrado le politiche di austerità – non è più, insomma, un male che per essere curato richiede dosi maggiori di austerità. Al contrario, l’elevato rapporto tra debito pubblico e Pil è il più logico risultato della scelta politica dell’austerità.
Nell’articolo di Rho emerge poi un altro punto rilevante, quello che in gergo economico viene definito ‘effetto spiazzamento’. Ci viene suggerito che lo Stato entra in competizione con i privati per le risorse disponibili, limitando così l’attività economica privata, la quale soffre la pressione derivante dal Moloch rappresentato dall’apparato pubblico. E’ il mito della scarsità delle risorse: ci raccontano che la torta è data, e lo Stato vorace ne vuole mangiare sempre di più a scapito dei privati. Eppure, a questo proposito, persino l’insospettabile Fondo Monetario Internazionale ha dovuto constatare che l’intervento pubblico non ‘mangia’ risorse, ma al contrario le crea. La spesa pubblica, stimolando la domanda aggregata in un’economia ben lontana dal pieno impiego del lavoro, accresce la torta disponibile per tutti.
Dopo aver decostruito lo spauracchio del debito pubblico, occorre prestare attenzione all’aspetto politico del problema. Potrebbe infatti sembrare che, dimostrata l’inconsistenza teorica del paradigma dominante alla base dei vincoli europei, sia sufficiente il semplice buon senso per superare questo schema con una modifica delle regole europee a favore di crescita economica e benessere per tutti. In realtà sappiamo che la morsa dell’austerità e la sistematica denigrazione del ruolo del pubblico sono armi affilatissime per aumentare la disoccupazione e, per questa via, tenere sotto scacco i lavoratori che in un contesto di disoccupazione e crisi perdono drasticamente potere contrattuale. L’austerità non è un errore tecnico o il delirio di qualche fanatico, ma un disegno politico di cui i capitalisti si avvantaggiano nel conflitto per la distribuzione sociale del reddito a discapito dei lavoratori.
Il ricatto del debito è dunque l’arma usata, ogni giorno, contro i lavoratori per promuovere il disegno politico dell’austerità. Potrebbe però sembrare che per opporsi a questo disegno basti modificare i trattati europei. Ma la cosiddetta Europa, non in quanto area geografica e insieme di paesi ma in quanto Unione Europea, non è altro che un insieme di trattati costituiti per disciplinare il lavoro e favorire i profitti: l’Unione Europea, lungi dal dover essere aggiustata, sta funzionando alla perfezione per svolgere il compito per il quale è stata costruita. Non si tratta di un’entità modificabile come può esserlo uno Stato tramite una dialettica politica e conflittuale interna, ma di una rigida gabbia al servizio del profitto: qualsiasi ribaltamento dei rapporti di forza a favore delle classi sociali svantaggiate, quindi, non può che passare per la rottura di questo dispositivo disciplinante che sta strangolando le nostre economie e favorendo un gigantesco processo di redistribuzione del reddito a favore di una ristretta oligarchia.
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