Non è certo opinabile che il consumo di cibi e bevande che contengono molti zuccheri, o grassi saturi, faccia male alla salute, così come è noto che tale comportamento possa provocare nel tempo malattie che si traducono in maggiori costi per il Servizio Sanitario Nazionale. L’inserimento di un’imposta indiretta su questi beni dovrebbe, nell’immaginario di chi la propone, ridurne il consumo in misura trasversale a tutti i cittadini, creando un maggior beneficio a tutta la società. Inoltre, e questo è il secondo aspetto della proposta, l’introito derivante dalla tassa verrebbe utilizzato per effettuare quegli investimenti in ricerca e istruzione di cui il Paese necessita. Raccontata la storia in questo modo, sembrerebbero non esserci controindicazioni all’introduzione di tale imposta. Tuttavia, vi sono perlomeno tre punti su cui vale la pena riflettere per rendersi conto che l’idea del Ministro Fioramonti nasconde rilevanti criticità. Procediamo con ordine.
Soffermiamoci, innanzitutto, sulle conseguenze derivanti da una maggiorazione sul prezzo di cibi e bevande consumati (anche se potenzialmente dannosi). Affinché un aumento del prezzo porti ad una effettiva riduzione del consumo, è necessario che la domanda del bene in questione abbia una sufficiente elasticità rispetto al prezzo. Tradotto in termini più comprensibili, significa che l’aumento del prezzo deve essere realmente in grado di scoraggiare l’acquisto di determinati beni. Ragionando per estremi, se si volesse eliminare dalle abitudini alimentari l’acquisto di cibi e bevande altamente zuccherini, l’imposta dovrebbe essere così alta da generare, per paradosso, un’entrata nulla per le finanze pubbliche. In questo modo, infatti, essendo divenuto estremamente costoso, nessuno vorrebbe più consumare tale bene. Quanto più lo Stato è in grado di orientare i comportamenti dei cittadini verso abitudini più virtuose, scoraggiando l’acquisto di beni nocivi alla salute con un rincaro sul prezzo, tanto minore sarà il gettito fiscale derivante dall’applicazione di un’imposta indiretta. Teniamo bene a mente questo principio, ci tornerà utile nel seguito della nostra argomentazione.
In altri paesi è già stata introdotta un’imposta su beni di consumo ad alto contenuto di zuccheri e in pochi casi questa misura ha inciso sensibilmente sul comportamento dei cittadini, nella grande maggioranza dei casi ciò ha comportato solamente una fonte di entrata nelle casse dello Stato. Ciò ci permette di giungere al secondo punto su cui è articolato il nostro ragionamento. Se, realisticamente, l’imposta suggerita da Fioramonti si traducesse quasi esclusivamente in un rincaro dei prezzi, tale misura avrebbe un impatto eterogeneo tra le diverse tipologie di consumatore. In particolare, una tassa su merendine e bibite gassate colpirà maggiormente le famiglie con bambini e, in particolare le famiglie più povere. Non serve soffermarsi molto sul perché i bambini siano i maggiori consumatori di merendine, quindi è relativamente facile comprendere come un’imposta del genere colpirà principalmente chi ha figli a carico. Ma perché questa tassa dovrebbe colpire maggiormente le fasce più deboli? Innanzitutto, perché è probabile che i più abbienti consumino altri tipi di alimenti e di bevande, come per esempio vini pregiati anziché bevande gassate. In secondo luogo, e questo è l’aspetto meno intuitivo, perché una tassa di questo tipo colpirebbe indistintamente tutti i consumatori. La cosa sembrerebbe equa ma non lo è. Per spiegarci meglio, è utile fare un esempio numerico. Ipotizziamo che un’imposta indiretta di questo tipo abbia un impatto di 1 euro al mese per il singolo consumatore. Facendo due conti: 1 euro in meno per chi ne guadagna 1.000 rappresenta un millesimo del suo reddito, ma è un decimillesimo per chi guadagna 10.000 euro e ancor di meno per redditi via via più alti. In altre parole, la stessa uscita di cassa è proporzionalmente maggiore per chi guadagna meno. Dunque, sotto l’apparente veste della proporzionalità dell’imposta si nasconde addirittura una misura fiscale regressiva, come del resto in quasi tutti i casi di imposta indiretta.
Se veramente uno Stato volesse perseguire un obiettivo largamente condivisibile come quello della salute dei propri cittadini, la strada da seguire non sarebbe certamente quella di una maggiorazione di prezzo su alcune categorie di beni di consumo. Anziché scoraggiare il consumo di cibi nocivi aumentandone il prezzo, attraverso l’applicazione di un’imposta, potrebbe sussidiare l’acquisto di alimenti più sani che diverrebbero così relativamente più economici rispetto ai primi. Tuttavia, ciò rappresenterebbe un’uscita per le finanze pubbliche anziché un’entrata.
La via maestra dovrebbe invece passare per una diretta regolamentazione dei consumi. Se il consumo di un certo bene è nocivo alla salute lo si può vietare o, meglio ancora, si può imporre, quando possibile, una modifica della sua produzione, al fine di rendere il prodotto maggiormente salutare. Quindi, ad esempio, anziché un “vietiamo la nutella”, si potrebbe obbligare l’azienda a produrre un cibo più sano migliorandone la qualità degli ingredienti e il processo produttivo a parità di prezzo praticato. Altrimenti, anche in questo caso, ne risulterebbero penalizzati i consumatori con redditi più bassi. Solo attraverso una stretta regolamentazione, da un lato, sugli standard qualitativi e di produzione e, dall’altro, sui prezzi, la misura colpirebbe i margini di profitto della grande distribuzione e produzione alimentare. Ovviamente, affinché un Paese possa realisticamente applicare una normativa di questo genere, è necessario un rigido controllo dei capitali altrimenti le imprese private sposterebbero la produzione in altri paesi con conseguenze nefaste anche sul lato occupazionale.
Avvicinandoci alla conclusione, bisogna capire quale sia lo scopo reale dell’introduzione di un’imposta indiretta, come quella proposta dal ministro Fioramonti, su cibi e bevande. In realtà, come ammesso dal ministro in prima persona (minuto 0:40), tale misura non è stata immaginata al fine di modificare i consumi della popolazione, ma rappresenta uno strumento per “fare cassa” e ottenere in questo modo una copertura finanziaria per il reale obiettivo del ministro: un aumento della spesa in istruzione e ricerca.
Ecco, dunque, che ci accingiamo a svelare l’identità del colpevole.
Sotto le mentite spoglie di un’agenda politica brillante e in grado di perseguire congiuntamente obiettivi nobili, quali una maggiore attenzione per la salute e l’istruzione, si cela ancora una volta il volto beffardo dell’Unione Europea. Sono, infatti, l’austerità imposta dai vincoli europei e la norma della libera circolazione dei capitali la causa di una finanza pubblica creativa (citando lo stesso Fioramonti, “dobbiamo ottenere risorse in modo innovativo”) o per meglio dire, disperata.
È l’adesione cieca e acritica a quelle regole europee che impongono il pareggio di bilancio a indurre governo e ministri a raschiare il barile per finanziare le politiche che si intendono perseguire, siano esse di sviluppo o di protezione sociale. Se non vi fosse tale costrizione, nel caso specifico, non sarebbe necessario introdurre un’imposta su cibi e bevande perché si potrebbe aumentare (e sarebbe davvero il caso) la spesa in istruzione e ricerca attraverso un disavanzo pubblico.
È la libera circolazione dei capitali,
pilastro dell’Unione Europea, che impedisce una tassazione realmente
progressiva, che faccia pagare ai privilegiati i costi di misure a
tutela della salute e dell’ambiente. Di fronte alla minaccia di capitali
che possono agevolmente lasciare il Paese, è sempre più semplice per un
governo pavido far ricadere la scure sui soliti noti, come accade nella
proposta del ministro Fioramonti.
In un siffatto contesto costrittivo rimane solo la via deprecabile della politica fiscale ad impatto regressivo, quella che passa o per l’esacerbazione delle imposte dirette sul lavoro a svantaggio dei ceti medi e bassi oppure per l’iniqua imposizione indiretta che a volte si può nascondere persino dietro un’insana merendina o una bibita gassata.
Fonte
In un siffatto contesto costrittivo rimane solo la via deprecabile della politica fiscale ad impatto regressivo, quella che passa o per l’esacerbazione delle imposte dirette sul lavoro a svantaggio dei ceti medi e bassi oppure per l’iniqua imposizione indiretta che a volte si può nascondere persino dietro un’insana merendina o una bibita gassata.
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