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Con la digitalizzazione ci troviamo a “metà strada” tra la rivoluzione tecnologica e quella del lavoro per come lo abbiamo conosciuto. Se “sommiamo” agli aspetti visti fino a questo momento l’elemento digitalizzazione, possiamo parlare a pieno titolo di evoluzione del capitalismo industriale a “capitalismo digitale”, dove la conoscenza come fattore produttivo diventa fondamentale (per questo meglio parlare di economia o società della conoscenza) e dove, attenzione, l’“hardware” non è scomparso. Il lavoro fisico di milioni di persone esiste ancora, compreso quello dei “lavoratori della conoscenza” (lavoro mentale) e compreso quello che serve materialmente per produrre i sistemi digitali (un esempio significativo di ciò e su cui tornerò in seguito, sono quei lavoratori che vengono definiti “operai del click”).
Possiamo quindi parlare a pieno titolo di “totalitarismo digitale1”, ossia disseminazione di dispositivi digitali, cattura degli atti, interferenza di procedure cognitive, indirizzo delle pratiche, produzione di dati, elaborazione di profili, controllo personale e sociale, a maggior ragione nel lavoro e dei lavoratori.
Quali, quindi, gli aspetti essenziali e le conseguenze dovute alla disseminazione di dispositivi digitali (tablet, braccialetti elettronici, telecamere, smartphone, ecc.) nella società, ma soprattutto nel mondo del lavoro?
Controllo a distanza: con il “Job-Act” è stato alterato l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che vietava l’uso di impianti audiovisivi di controllo nei luoghi di lavoro, cosa che ha avviato un’esponenziale assegnazione di dispositivi, di strumenti mobili o fissi (bracciali, smartphone aziendali, badge, tomtom traccianti, ecc.) volti a controllare e registrare ciò che ogni lavoratore fa sia nel luogo di lavoro, ma non solo. Si sviluppa così un controllo disciplinare e della produttività, dove il primo è realizzato per convergere nel secondo e quindi innalzare la produttività (se pensi di essere sempre osservato, registrato, ecc., ti auto-controlli e rendi di più. L’aspetto del controllo e dell’auto-controllo dovuto ai dispositivi e alle piattaforme digitali ovviamente è da considerarsi anche al di fuori del mero ambiente lavorativo).
Solitudine nel lavoro: interazione esclusiva con il dispositivo digitale del lavoratore che esclude non solo dall’interazione con i colleghi con cui potenzialmente può realizzare quel lavoro, ma anche con chi il lavoro lo impartisce (il tablet ti dice cosa devi fare, dove, ecc.)
Dominio dei dispositivi sugli atti e pratiche lavorative.
Distanziazione: i lavoratori, interagendo con il dispositivo digitale, anche se vicini fisicamente nel luogo di lavoro sono sempre più “distanzianti”, non interagendo mai o di rado con il collega, ma solo con il dispositivo digitale. La conseguenza più immediata è la perdita di solidarietà tra lavoratori e la trasformazione definitiva degli stessi in un’unità singole all’interno del processo produttivo (e sociale!).
Quantità al posto della qualità: nella vita e soprattutto nel lavoro ciò che diventa importante è il dato e la sua misura. La performance valutata attraverso l’immagazzinamento sempre più alto di dati (big data) per raggiungere i risultati (punteggio nel lavoro, voti e crediti a scuola, “mi piace” su FB, ecc.). Il tutto a discapito della qualità del lavoro, del pensiero che ognuno mette in ciò che fa e quindi della capacità di pensiero critico.
Velocità
Cambiamento del significato di ora-lavoro: la forza lavoro viene acquistata e retribuita sulla base della produttività e al raggiungimento del risultato, che in ogni momento con il dispositivo digitale può venire controllato, misurato e quantificato. Perde d'importanza la giornata lavorativa e acquista importanza solo il risultato. Solo questo viene retribuito.
La conseguenza di ciò sono l’introduzione del “lavoro agile” e dello “smart working” (il lavoro da remoto), che comportano – al contrario di come vengano “pubblicizzati” nelle aziende, cioè una maggiore conciliazione tra lavoro e tempo di vita – un allungamento della giornata lavorativa oltre le otto ore (con lo smartphone costantemente in mano guardi la mail del lavoro e quindi lavori da casa, alla sera, nel fine settimana, ecc.). Interviene inoltre, un altro aspetto, che è il cambiamento della figura del lavoratore, sul quale torniamo a breve.
Prescritto e Non Prescritto: attraverso i sistemi gestionali informatici vengono standardizzate una serie di domande (a risposta chiusa e senza possibilità di argomentazione) che valutano se hai svolto tutti i passaggi che una mansione lavorativa (standardizzata) richiede per ottenere un risultato. Questo è il prescritto. Se soddisfi tutti i criteri di risposta, ti viene assegnato un punteggio e quindi una retribuzione per la mansione svolta. Molto spesso per soddisfare ogni passaggio standardizzato però, ne occorrono molti altri che il lavoratore svolge, ma che non sono previsti e misurati dal sistema gestionale. Questo è il non prescritto. Su questo l’azienda fa profitto, perché non sta pagando lavoro che in realtà è stato svolto, oppure non paga addirittura il risultato, perché queste azioni non previste hanno impossibilitato il suo raggiungimento nel tempo definito.
Partendo da quest’ultimi due aspetti, che sono quelli maggiormente radicali e significativi all’interno della rivoluzione Industry 4.0, si comprende che la digitalizzazione di differenti processi lavorativi, oltre a “colpire” coloro che appartengono direttamente al processo produttivo (operai, tecnici, ecc.), andrà a “colpire” maggiormente quella parte di lavoratori che fino ad ora si sono sentiti insostituibili perché svolgono un lavoro cognitivo o per meglio dire “lavoro mentale2”. Infatti, la digitalizzazione impatterà anche e soprattutto sulle posizioni impiegatizie, mediche, avvocati, architetti, ecc.
Ciò che riassume tutti questi aspetti, viene definito, Taylorismo digitale3. Negli ultimi decenni si era sostenuto che il taylorismo fosse tramontato con la scomparsa della fabbrica fordista, ma con l’avvento delle tecnologie digitali – soprattutto il software – si delineano, regole, procedure, metriche cognitive, che sono capaci di controllare\disciplinare i comportamenti del lavoro mentale non meno di quanto facesse la catena di montaggio, solo che è il lavoratore stesso che ora si pone volontariamente in questa condizione.
Il taylorismo digitale è un fenomeno in essere a quello che più genericamente viene definito “quantified self movement”, cioè la capacità dei dispostovi indossabili, di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali di chi se ne serve, per sviluppare una forma di autoanalisi della vita quotidiana, che esonda quindi dalla sola dimensione prettamente lavorativa o tende a mischiarle. Tutto questo allo scopo di diventare sempre più performanti, competitivi, invitando chi ci sta attorno a imitarci e al contempo trasformarci in concorrenti gli uni con gli altri.
La digitalizzazione e le sue pratiche ci permettono quindi di comprendere nella realtà, come la fase capitalistica in corso, caratterizzata dalla rivoluzione industriale di Industry 4.0, “sviluppi un uso intensivo della scienza e delle tecnologie […] per un’implementazione della conoscenza come fattore produttivo fondamentale […] e come tale fattore sia stato individuato come unico elemento di vantaggio competitivo possibile”4 per potere sopravvivere nella competizione globale.
Il “lavoro mentale” diventa quindi fondamentale. Questo non significa la totale terziarizzazione delle società, le produzioni del secondario esistono e devono continuare ad esistere, ma che il fattore fondamentale dello scontro competitivo è la conoscenza5, la sua valorizzazione, la gestione dei dati che genera che a loro volta vengono trasformati in informazioni e quindi comunicazione\ideologia che riplasma la totalità del corpo sociale stesso nella direzione fino qui vista. Esempi di digitalizzazione, nell’industria, nella scuola, nella sanità: Gladiator (per sentirti un vero gladiatore dell’attività aziendale) prodotto da Motorola, oppure piattaforme come Watson (IBM), Idoctor, Medico2000, ecc., Nuvola, Argo, Classe Viva, ecc.
All’interno di Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica vi sta a pieno titolo anche “L’intelligenza Artificiale”, che apre un capitolo molto vasto che non affronto in questo intervento. Una cosa però è importante rilevare, ossia come una delle sue componenti fondamentali sia la connessione e l’interazione costante con il “Big data” e appunto la conoscenza come fattore fondamentale. Per “imparare”, “rielaborare”, l’AI, ha bisogno di dati, infatti gli esempi relativi alle piattaforme digitalizzate sopra esposti, fanno parte a pieno titolo dell’AI.
Watson, la piattaforma di IBM, ne è un esempio lampante. Potere accedere alla massa di dati relativi al sistema sanitario, farmaceutico, nonché quelli che vengono immessi volontariamente in rete dalle persone con le app “HealtCare”, risulta fondamentale perché permetterà (in parte già ora) alla piattaforma stessa o similare, di realizzare diagnosi mediche in autonomia dall’uomo, dal medico (scomparsa del sistema del medico di famiglia, ecc.).
I dati non si accumulano da soli a formare una base valevole che può essere utilizzata dall’AI, ma come dicevo prima, devono essere rielaborati, resi “leggibili” per gli algoritmi dell’intelligenza artificiale dal “lavoro mentale” di persone in carne ed ossa. La gestione e rielaborazione del “Big data” sta producendo nel mondo migliaia di lavoratori a cottimo, chiamati gli operai del click6, che vengono impiegati da piattaforme quali: le americane Amazon MechanicalTurk, Upwork, PeoplePerHour, Rate-rhub (Google) o la cinese Zhubajie che aggrega fino a 15 milioni di micro-lavoratori digitali. Costoro comprano micro-lavoro di persone, il cui compito è rielaborare dati per aumentare le capacità degli algoritmi ad apprendere, cioè rendono possibile quello che viene definito il “machine learning” (l’apprendimento delle macchine). Questi lavoratori sono di fatto a cottimo, vengono impiegati in quelle che vengono definite “click farms”, non è necessario un luogo fisico di lavoro definito, ma basta avere accesso ad una connessione con uno smartphone, quindi si rivolge ad una platea di persone estremamente pauperizzata alla quale la misera retribuzione a cottimo così ottenuta può fare la differenza nella giornata. Inoltre, si viene a creare un sistema di delocalizzazione “virtuale” di buona parte di processi legati ai sistemi digitali, senza neanche aprire più sedi fisiche nel paese in cui si è delocalizzato.
All’interno dei processi di digitalizzazione di Industria 4.0 vi è da considerare anche la “Sharing economy” o “Gig Economy”, realizzata da piattaforme come Uber, Foodora, JusEat, ecc. che coinvolge migliaia di lavoratori, alla ribalta delle cronache per le lotte che stanno realizzando in merito al riconoscimento della dignità del loro lavoro contro la parcellizzazione e l’autonomizzazione che sono appunto le caratteristiche per cui è concepita e si valorizza la “Sharing economy”. Altro aspetto fondamentale di Industry 4.0 è la circolazione delle merci ad alta velocità7, da qui si comprende come il settore della logistica e della movimentazione delle merci, risulti fondamentale in questo nuovo assetto del sistema produttivo.
Note:
1 In riferimento ai concetti di digitalizzazione, totalitarismo digitale, controllo a distanza, solitudine nel lavoro, dominio dei dispostivi, distanziazione, quantità, velocità, significato di ora-lavoro, prescritto e non rescritto, Cfr. “L’egemonia digitale”, a cura di Renato Curcio, Sensibili alle foglie, 2016.
2 Cfr. “Lavoro mentale e classe operaia” Guglielmo Carchedi, 2017.
3 In riferimento ai concetti di Taylorismo digitale, “Quantified self movement”, Cfr. “La variante populista: lotta di classe nel neoliberalismo”, Carlo Formenti, Derive Approdi, 2016.
4 “Comunicazione deviante: gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore”, Luciano Vasapollo, Rita Martufi, Edizioni Efesto, 2018.
5 In riferimento al concetto di conoscenza Cfr. “Comunicazione deviante, gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore”, Luciano Vasapollo, Rita Martufi, Edizioni Efesto, 2018.
6 In riferimento agli “operai del click”, Cfr. “Gli operai del click sono il cuore dell’automazione, intervista ad Antonio Casilli di Roberto Ciccarelli, il Manifesto, 27 febbraio 2019.
7 Cfr. “Dalla catena di montaggio alla catena del valore”, Proteo, numero 5/2016, CESTES – USB.
Fonte
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