L’elogio paradossale è un genere che nasce con la
retorica antica come mezzo per mostrare il potere smisurato della
parola, capace di sovvertire le credenze comuni. Questo meccanismo
retorico raggiunge uno dei suoi culmini con l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam e appare largamente diffuso anche nella cultura contemporanea. Di solito, ad essere oggetto di un elogio, è qualcosa che viene considerato in modo negativo dal pensiero comune.
Ecco che, scorrendo i titoli di libri attualmente in commercio in
Italia, troviamo l’elogio del conflitto, dell’errore, dell’odio, della
depressione, del parassitismo, del turpiloquio, del ripetente, del
gigolò, del traditore, dello snob, del piromane, della bestemmia, della
prostituzione, del gioco d’azzardo, del crimine e via di seguito.
Ora,
se qui si intende fare un semplice “elogio della passeggiata” è perché quest’ultima si è trasformata in oggetto di riprovazione generale. Prima, se facevi una passeggiata senza alcun motivo o meta prestabilita, eri semplicemente un ozioso e un bighellone, adesso, dopo le nuove restrizioni della vita sociale, ti sei trasformato in un vero e proprio criminale, esecrabile e soggetto a delazioni di ogni tipo.
Ma – vogliamo porre in gioco tale questione – cosa
c’è di più bello di una passeggiata, da soli o con gli amici, senza
alcuna meta prestabilita, nelle vie cittadine o negli ameni sentieri di
campagna? Arthur Rimbaud, nella poesia Sensazione, a proposito di una solitaria passeggiata in campagna, così scrive: Non
parlerò più, non penserò più a niente: / ma un amore infinito mi salirà
nel cuore / e andrò molto lontano, io vagabondo / nella Natura, felice
come con una donna. Naturalmente, si intende per “passeggiata” un
più o meno breve spostamento a piedi realizzato senza alcun fine
programmato e senza alcuna meta oppure una meta, se c’è, assume un
carattere completamente ludico, asservito esclusivamente alla sfera del
piacere. Una passeggiata è infatti asservita esclusivamente alla sfera del piacere.
Se guardiamo alla filosofia e alla letteratura, da sempre la
passeggiata, il libero spostamento a piedi è stato associato alla
fantasia, al pensiero e all’immaginazione. Basti pensare all’antica scuola peripatetica, fondata da Aristotele.
I peripatetici erano i “passeggiatori” (gli “erranti”, “coloro che sono
in movimento”) mentre la scuola, denominata Peripato, prende il nome
dal verbo greco peripatèin, “passeggiare”. Sotto i portici della scuola, il maestro e i suoi allievi passeggiavano discutendo di filosofia, dando libero sfogo al pensiero. Anche un filosofo moderno come Kant,
alle due e trenta di ogni pomeriggio, intraprendeva una passeggiata
solitaria per riflettere e per digerire. La passeggiata era assai
importante anche per Jean-Jacques Rousseau, al punto da averle dedicato uno scritto, Le fantasticherie del passeggiatore solitario,
realizzato tra il 1776 e il 1778. L’opera ha un carattere
autobiografico ed è costituito da dieci capitoli, o passeggiate, e
ognuna di esse è una riflessione sulla natura dell’uomo e del suo
spirito. Alla dimensione della passeggiata, intesa come uno spostamento
senza alcuno scopo pratico, si avvicina anche la struttura del romanzo picaresco, cioè un particolare tipo di romanzo che fiorisce in Spagna nel XVII secolo. Esso
è caratterizzato dalle avventure, spesso sordide e basse, di personaggi
che si muovono senza alcuna meta o finalità lungo le principali vie di
comunicazione. Teatro dell’azione sono spesso le taverne e le
locande e il motore propulsore delle avventure è determinato dalla
logica dell’incontro: è grazie agli incontri fortuiti fatti per la via che i
protagonisti si imbarcano in sempre nuove avventure.
Nella modernità letteraria, la passeggiata si trasforma nella pratica della flânerie, resa celebre da Charles Baudelaire. Il flâneur
è il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta
e senza meta, sperimentando e provando emozioni nel guardare il
paesaggio. Secondo Baudelaire, il flâneur è un vero e proprio
“botanico del marciapiede”, un conoscitore analitico del tessuto urbano;
il poeta francese arrivò a definirlo come “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe per le vie di Parigi”.
In questa definizione è insito il carattere della lentezza e
dell’oziosità che accompagna la figura del “bighellone” (così si può
tradurre il termine flâneur). Qualsiasi scopo pratico è avulso
dalla sua idea di spostamento: camminando, egli crea nuovi percorsi di
immaginazione e di fantasia, liberando la dimensione di un immaginario
libero e antigerarchico. Walter Benjamin, nei suoi Passagenwerk,
analizza tale figura come un prodotto della vita moderna e della
rivoluzione industriale, traendo le sue osservazioni estetiche e sociali
dalle sue lunghe passeggiate per le vie di Parigi. Attraverso i passages
di Parigi – queste arcate ricoperte di vetro e di ferro, illuminate da
luci a gas e arredate da panorami che circoscrivono il terreno di caccia
delle prostitute, che delimitano lo spazio in cui s’intrecciano file di
scarpe, café e oggetti dalla forma mostruosa – il “bighellone” può
esprimere un sempre libero e nuovo immaginario. Su queste basi teoriche,
successivamente, i situazionisti hanno costruito la loro idea di “deriva”: quest’ultima può essere definita come un volontario smarrimento dell’orientamento o come un vagare senza meta e senza scopo. Nella sua Teoria della deriva, Guy Debord la definisce come segue: Per
fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete
man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che
vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se
fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo
cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da
portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano
stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio
come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.
In un elogio della passeggiata, non si può poi non ricordare la figura di Oblomov, l’ozioso personaggio nato dalla fantasia di Ivan Gončarov.
Nel romanzo omonimo, egli, anche se non ama poi troppo uscire di casa,
fa piccole passeggiate campestri consacrate all’ozio e al riposo. Robert Walser dedica poi alla passeggiata un intero romanzo, dal titolo La passeggiata
(1917), la quale diviene qui una metafora della vita, in uno
spostamento cadenzato da un ritmo da fiaba all’interno del quale le
lunghe passeggiate iniziate al mattino si concludono sempre
all’approssimarsi di una dolce e malinconica sera.
La passeggiata è perciò riflessione, libera espressione del
pensiero e dell’immaginazione, attività ludica e creazione di situazioni
di gioco e di spazi liberati. Una pratica che l’ozio creativo
si ritaglia all’interno di uno spazio liberato, appunto, dalle dinamiche
del lavoro e dello stress quotidiano. E se adesso si è trasformata in
una pratica esecrabile, quasi un’azione criminale, davvero, poveri noi.
Ma noi rivendichiamo sempre il nostro diritto in futuro a essere dei
bighelloni trasandati e oziosi che fanno lunghe passeggiate per il solo
gusto di farle. È una cosa bellissima.
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