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01/04/2020

Elogio della passeggiata

L’elogio paradossale è un genere che nasce con la retorica antica come mezzo per mostrare il potere smisurato della parola, capace di sovvertire le credenze comuni. Questo meccanismo retorico raggiunge uno dei suoi culmini con l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam e appare largamente diffuso anche nella cultura contemporanea. Di solito, ad essere oggetto di un elogio, è qualcosa che viene considerato in modo negativo dal pensiero comune. Ecco che, scorrendo i titoli di libri attualmente in commercio in Italia, troviamo l’elogio del conflitto, dell’errore, dell’odio, della depressione, del parassitismo, del turpiloquio, del ripetente, del gigolò, del traditore, dello snob, del piromane, della bestemmia, della prostituzione, del gioco d’azzardo, del crimine e via di seguito.

Ora, se qui si intende fare un semplice “elogio della passeggiata” è perché quest’ultima si è trasformata in oggetto di riprovazione generale. Prima, se facevi una passeggiata senza alcun motivo o meta prestabilita, eri semplicemente un ozioso e un bighellone, adesso, dopo le nuove restrizioni della vita sociale, ti sei trasformato in un vero e proprio criminale, esecrabile e soggetto a delazioni di ogni tipo.

Ma – vogliamo porre in gioco tale questione – cosa c’è di più bello di una passeggiata, da soli o con gli amici, senza alcuna meta prestabilita, nelle vie cittadine o negli ameni sentieri di campagna? Arthur Rimbaud, nella poesia Sensazione, a proposito di una solitaria passeggiata in campagna, così scrive: Non parlerò più, non penserò più a niente: / ma un amore infinito mi salirà nel cuore / e andrò molto lontano, io vagabondo / nella Natura, felice come con una donna. Naturalmente, si intende per “passeggiata” un più o meno breve spostamento a piedi realizzato senza alcun fine programmato e senza alcuna meta oppure una meta, se c’è, assume un carattere completamente ludico, asservito esclusivamente alla sfera del piacere. Una passeggiata è infatti asservita esclusivamente alla sfera del piacere.

Se guardiamo alla filosofia e alla letteratura, da sempre la passeggiata, il libero spostamento a piedi è stato associato alla fantasia, al pensiero e all’immaginazione. Basti pensare all’antica scuola peripatetica, fondata da Aristotele. I peripatetici erano i “passeggiatori” (gli “erranti”, “coloro che sono in movimento”) mentre la scuola, denominata Peripato, prende il nome dal verbo greco peripatèin, “passeggiare”. Sotto i portici della scuola, il maestro e i suoi allievi passeggiavano discutendo di filosofia, dando libero sfogo al pensiero. Anche un filosofo moderno come Kant, alle due e trenta di ogni pomeriggio, intraprendeva una passeggiata solitaria per riflettere e per digerire. La passeggiata era assai importante anche per Jean-Jacques Rousseau, al punto da averle dedicato uno scritto, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, realizzato tra il 1776 e il 1778. L’opera ha un carattere autobiografico ed è costituito da dieci capitoli, o passeggiate, e ognuna di esse è una riflessione sulla natura dell’uomo e del suo spirito. Alla dimensione della passeggiata, intesa come uno spostamento senza alcuno scopo pratico, si avvicina anche la struttura del romanzo picaresco, cioè un particolare tipo di romanzo che fiorisce in Spagna nel XVII secolo. Esso è caratterizzato dalle avventure, spesso sordide e basse, di personaggi che si muovono senza alcuna meta o finalità lungo le principali vie di comunicazione. Teatro dell’azione sono spesso le taverne e le locande e il motore propulsore delle avventure è determinato dalla logica dell’incontro: è grazie agli incontri fortuiti fatti per la via che i protagonisti si imbarcano in sempre nuove avventure.

Nella modernità letteraria, la passeggiata si trasforma nella pratica della flânerie, resa celebre da Charles Baudelaire. Il flâneur è il gentiluomo che vaga oziosamente per le vie cittadine, senza fretta e senza meta, sperimentando e provando emozioni nel guardare il paesaggio. Secondo Baudelaire, il flâneur è un vero e proprio “botanico del marciapiede”, un conoscitore analitico del tessuto urbano; il poeta francese arrivò a definirlo come “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe per le vie di Parigi”. In questa definizione è insito il carattere della lentezza e dell’oziosità che accompagna la figura del “bighellone” (così si può tradurre il termine flâneur). Qualsiasi scopo pratico è avulso dalla sua idea di spostamento: camminando, egli crea nuovi percorsi di immaginazione e di fantasia, liberando la dimensione di un immaginario libero e antigerarchico. Walter Benjamin, nei suoi Passagenwerk, analizza tale figura come un prodotto della vita moderna e della rivoluzione industriale, traendo le sue osservazioni estetiche e sociali dalle sue lunghe passeggiate per le vie di Parigi. Attraverso i passages di Parigi – queste arcate ricoperte di vetro e di ferro, illuminate da luci a gas e arredate da panorami che circoscrivono il terreno di caccia delle prostitute, che delimitano lo spazio in cui s’intrecciano file di scarpe, café e oggetti dalla forma mostruosa – il “bighellone” può esprimere un sempre libero e nuovo immaginario. Su queste basi teoriche, successivamente, i situazionisti hanno costruito la loro idea di “deriva”: quest’ultima può essere definita come un volontario smarrimento dell’orientamento o come un vagare senza meta e senza scopo. Nella sua Teoria della deriva, Guy Debord la definisce come segue: Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.

In un elogio della passeggiata, non si può poi non ricordare la figura di Oblomov, l’ozioso personaggio nato dalla fantasia di Ivan Gončarov. Nel romanzo omonimo, egli, anche se non ama poi troppo uscire di casa, fa piccole passeggiate campestri consacrate all’ozio e al riposo. Robert Walser dedica poi alla passeggiata un intero romanzo, dal titolo La passeggiata (1917), la quale diviene qui una metafora della vita, in uno spostamento cadenzato da un ritmo da fiaba all’interno del quale le lunghe passeggiate iniziate al mattino si concludono sempre all’approssimarsi di una dolce e malinconica sera.

La passeggiata è perciò riflessione, libera espressione del pensiero e dell’immaginazione, attività ludica e creazione di situazioni di gioco e di spazi liberati. Una pratica che l’ozio creativo si ritaglia all’interno di uno spazio liberato, appunto, dalle dinamiche del lavoro e dello stress quotidiano. E se adesso si è trasformata in una pratica esecrabile, quasi un’azione criminale, davvero, poveri noi. Ma noi rivendichiamo sempre il nostro diritto in futuro a essere dei bighelloni trasandati e oziosi che fanno lunghe passeggiate per il solo gusto di farle. È una cosa bellissima.

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