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01/04/2020

Per non tornare al mondo di prima. La sinistra di classe e l’esigenza di tornare a pensare insieme

Il prolungarsi indefinito della crisi epidemica e sanitaria sta mutando il mondo che eravamo abituati (e rassegnati) a conoscere. La storia sembra essersi rimessa inaspettatamente in moto. Una frase sentita molte volte in questi anni, eppure mai come oggi prossima alla realtà. Le classi dirigenti dei principali paesi occidentali (e non solo) hanno subìto l’epidemia, rincorrendo l’evoluzione del virus sempre un attimo dopo gli eventi. Negazionismo e drammatizzazione sono parte di una stessa retorica, fatta propria da politiche inadeguate a reggere l’urto della realtà. L’incidenza di una epidemia di questo tipo avrebbe, forse, lasciato interdetto qualsiasi potere: inutile oggi riempire le fosse del senno del poi. Per quanto, sia detto esplicitamente, la gestione dell’emergenza sanitaria ha còlto impreparato un intero sistema di relazioni sociali non solo per la sua carica catastrofica naturale – cioè incontrollabile – ma anche perché si è scontrata frontalmente con un modello di sviluppo determinato. Se il virus appare un fatto naturale, la gestione sanitaria dell’emergenza è sicuramente un fatto politico, che svela il carattere anti-umano delle politiche liberiste di questo trentennio.

La crisi sanitaria prima o poi, però, passerà. La fine di questa coinciderà con l’aggravarsi di una crisi economica inaudita in tempo di pace. Ed è riguardo a questo nuovo mondo che le classi dirigenti dell’Occidente – e soprattutto quelle italiane – non sapranno cosa fare. Rimarranno attonite, tentando di incasellare nei ragionamenti di ieri un quadro di soluzioni e prospettive inservibili per il mondo di domani. Il dibattito pubblico già in corso ne svela d’altronde tutte le caratteristiche. Da una parte c’è il solito refrain liberista, declinato principalmente nella chiave ordoliberale che garantisce il libero mercato attraverso l’interventismo giuridico-repressivo dell’apparato statuale; dall’altro il variegato fronte della critica neokeynesiana, che spinge verso la “condivisione del debito” e la costruzione di un’Europa finalmente federale. Politica dell’austerity versus politica del debito. Le “soluzioni” di ieri applicate al mondo di domani.

Tra queste due visioni impotenti del futuro, la sinistra di classe rischia di ritagliarsi un ruolo ancor più marginale di quanto avuto sino ad oggi. Rassegnandosi ad interpretare il fronte del NO a tutto e della chiusura ad oltranza, questa sinistra rischia di non cogliere la sfida che già oggi è in gestazione e gravida di potenzialità: mai come oggi il disorientamento delle classi dirigenti squarcia la politica politicante, favorisce soluzioni originali, costringe ad immaginare nuovi modelli di civiltà, un nuovo modo di intendere la modernità, una modernità finalmente non in contrapposizione all’uomo e all’ambiente che lo circonda; mai come oggi la carica inaspettata di idee nuove potrebbe farsi strada in pezzi di classe dirigente posti di fronte al baratro della crisi epocale.

Il dibattito sulla ripresa rischia di essere egemonizzato da Confindustria e dai suoi rappresentanti politici. Renzi, ma anche Salvini; il Pd, ma anche la schiera di “tecnici” – Draghi in primis – figli di un mondo che non ha più presa sulla realtà. Nei fatti, le uniche proposte concrete alternative alla chiusura sine die delle relazioni sociali del paese vengono dal fronte padronale: l’abbattimento, se non direttamente l’abolizione, di quote di fiscalità generale che gravano sulle imprese del paese; la riapertura indiscriminata della produzione ferma allo status quo ante, come se la crisi nella quale siamo ancora immersi fosse un’antipatica parentesi da lasciarsi alle spalle quanto prima; l’assistenzialismo quale orizzonte ultimo di ogni politica sociale. Abbiamo il dovere di ribaltare l’orizzonte di senso che le classi dominanti tentano di ricostruire garantendosi dagli imprevisti insiti in ogni crisi. È la crisi il terreno su cui lavorano i comunisti.

Abbiamo il dovere di immaginare il mondo di domani attraverso proposte ardite e originali. Dobbiamo dire esplicitamente che l’economia del debito non è la soluzione strutturale all’economia dell’austerity. Che il sostegno ai redditi dispersi dalla crisi – pure doveroso in questa fase e per il tempo necessario – è una misura tampone, e non l’obiettivo generale di una politica alternativa. Dobbiamo tornare a parlare di produzione rovesciando e abbattendo il “paradigma Taranto” che si vuole estendere a tutto il paese: o la salute o il lavoro. Salute e lavoro marciano uniti nel mondo di domani, ma per rendere concreta e realistica una proposta di tal fatta abbiamo bisogno di andare (molto) oltre i facili slogan a cui eravamo abituati nel mondo pre-crisi. Altrimenti, il rischio è di ritrovarci in autunno con ulteriori “liberalizzazioni” del mondo del lavoro e ristrutturazioni presidenzialistiche dei rapporti politico-rappresentativi, veicolati attraverso la narrazione “dell’emergenza”.

Per fare questo, però, c’è bisogno di alimentare un dibattito oggi bloccato anche al nostro interno. È oggi il tempo di farlo, non domani, non a giugno o in autunno. Allora, sarà troppo tardi. La borghesia evasora, rentier e anti-nazionale, europeista o populista, finanziaria o assistita, per quel tempo avrà già avuto modo di ri-organizzarsi. Se non attraverso politiche effettivamente all’altezza dei tempi (figuriamoci), attraverso la neutralizzazione del dibattito, agitando false flag ideologiche che non convinceranno nessuno, ma che persisteranno a dominare attraverso la coercizione diretta e indiretta. E con l’ausilio – come sempre – dei dominati, di quell’universo di subalternità sociale che non avrà altro modo di esprimere la propria proiezione ideale se non assecondando questa o quella finzione dialettica tutta interna al regime liberista.

Dovremmo cambiare anche noi dunque. Accettando la sfida che la realtà ci sta imponendo, stimolando un dibattito tra idee diverse, sicuramente non “ortodosse”, purché inaudite. Non per gusto di provocazione o di eclettismo. Ma perché il mondo di ieri finisce anche per noi e per il nostro teatrino. L’alternativa è farsi promotori di politiche irrealistiche, ideologiche, distopiche, disconnesse dalla realtà politica e sociale che invece richiede a gran voce – ma senza una voce cosciente – qualcosa di nuovo a cui credere. Un nuovo inizio dunque, che non può coincidere con restaurazione.

Impossibilitati all’azione politica, almeno per qualche altra settimana, è dunque il momento di favorire pensatoi comuni, con l’obiettivo di formulare e poi intestarci battaglie determinate per il dopo. Farci trovare pronti alla riapertura, questo l’unico obiettivo che dovremmo darci nel breve termine. E poi si vedrà.

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