di Giovanni Iozzoli
Dici
“maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni
’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di
una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri
volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci
di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo
scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine.
Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria.
Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due
surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss
mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del
segmento modenese più povero e precario – accusati di aver lottato per
difendere la propria condizione.
I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi
ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella
relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori
della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La
Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche
il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo
tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una
provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha
investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e
iper-protetta dalla politica locale .
Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver
picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della
loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della
Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il
movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte
cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente
comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.
C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati
non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce
spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore,
Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro
collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere
dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati
dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.
Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate
dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei
picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di
mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola
per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario
umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini.
Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di
trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari
per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e
ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.
Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di
intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante
sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per
capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema
giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le
“priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare
scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici
prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che
non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30
giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve
essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei
centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in
località S. Donnino.
C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che
non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema,
dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto.
Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo
paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli
atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti,
finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto
intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure
italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese
mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena
assolveranno egregiamente a questa funzione.
Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di
fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale
incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare
processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero
queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale
pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo,
per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale
scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è
stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi;
l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici,
amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di
ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni
del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano –
arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri,
ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai
solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.
Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva
sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci
troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la
società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio:
ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e
trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze
mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia
dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il
sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia
di finire in galera.
Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro
tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori
lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione,
istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e
sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di
milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di
cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar
Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una
maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati,
terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per
corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da
gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste
nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?
200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna
franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali
citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi
Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e
molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che
ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la
‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del
carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.
Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio,
con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi
polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità
democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde
nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti;
talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora
di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida
all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione
gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi
cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio
imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e
si complicano le vertenze, è scientifico.
Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il
blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il
fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va
interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la
merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti
meno di niente.
Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare
– tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti,
contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di
“fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli
strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in
certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo
appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I
blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente
diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe
sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo
tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più
scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei
cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta
istituzionale.
Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza,
persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas
– i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza
della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è
sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli –
soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio
smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e
qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati
sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono
saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né
rispetto, nel fronte datoriale.
Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena.
Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il
“modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al
primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati
concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato;
privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere
mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere
produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.
Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi
della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare
inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di
continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali
autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del
modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E
bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per
definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e
istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale,
indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente
questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.
Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di
tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank,
Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e
trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si
costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È
necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di
massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici
politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia.
Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi –
persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere
indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.
Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà
diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della
intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le
retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli
degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli,
i processi contro il lavoro.
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