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06/09/2020

Maxiprocessi, zamponi e tortellini

di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario – accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.

I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .

Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.

C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.

Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.

Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.

Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?

200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.

Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è scientifico.

Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti meno di niente.

Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.

Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas – i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.

Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.

Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.

Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.

Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.

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