Ripercorrendo sommariamente le fasi che hanno portato fin qui, va ricordato che il 24 novembre del 2016, a L’Avana, è stato siglato l’accordo di pace tra lo Stato borghese colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo (FARC-EP), ponendo così l’apparente parola “fine” a oltre 50 anni di conflitto armato. L’accordo prevedeva l’abbandono e consegna delle armi da parte delle FARC-EP, l’indulto e il reinserimento nella vita civile dei guerriglieri semplici, il riconoscimento dei crimini di stato con i corrispettivi risarcimenti alle vittime civili, la consegna di terre ai contadini poveri e una maggiore presenza dello Stato nei territori più dimenticati e arretrati. Per indagare e giudicare dirigenti della guerriglia, così come membri alle Forze dell’Ordine e attori terzi (paramilitari), fu costituita la Giurisdizione Speciale per la Pace (JEP, in spagnolo). Questa giustizia speciale doveva avere, in teoria, l’obiettivo di raggiungere la verità sui diversi crimini avvenuti durante la guerra interna, risarcire le vittime, garantire a loro l’accesso alla giustizia, combattere l’impunità, garantire agli attori coinvolti la sicurezza giuridica e contribuire alla costruzione di una pace solida e duratura[1]. Le FARC-EP dopo la firma dell’accordo sono diventate un partito politico legale con rappresentanza in parlamento, assumendo la denominazione di Forza Alternativa Rivoluzionaria del Comune (FARC) noto anche come Partito della Rosa.
Nei fatti, però, l’impegno governativo è stato deficitario e lento, l’abbandono e la consegna delle armi è divenuto un atto unilaterale a cui non sono corrisposte nei fatti le garanzie giudiziarie pattuite per gli appartenenti alla ex guerriglia, così come non vi è traccia dell’implementazione delle politiche di giustizia sociale previste nell’accordo.Questi fatti, secondo alcuni esponenti delle FARC come Iván Márquez[2], Edison Romaña e Jesús Santrich corrispondono al tradimento (ennesimo) degli accordi da parte dello Stato borghese colombiano che prosegue con le sue politiche controinsurgenti di sterminio. Infatti, il 9 aprile del 2018, venne imprigionato Jesús Santrich, delegato per la guerriglia ai negoziati e senatore eletto per il partito FARC, accusato di narcotraffico da un tribunale di New York, che chiese la sua estradizione negli Stati Uniti. Il processo è stato segnato dall’ingerenza dell’ambasciatore statunitense a Bogotà, Kevin Whitaker e dalle pressioni della DEA Americana, ed è stato definito una “farsa” non solo dal partito FARC, ma anche dall’ex-presidente Ernesto Samper[2]. La JEP ha deciso di non estradare Santrich e, infine, il 29 maggio 2019 la Corte Suprema ha ordinato la sua scarcerazione.
Il caso di Santrich non è isolato. Eclatante è la situazione di Simón Trinidad, ex-comandante del Blocco Caribe, detenuto nel 2004 in Ecuador ed estradato negli Stati Uniti dal governo di Álvaro Uribe. Trinidad, un uomo di 70 anni, sta scontando una pena di 60 anni in un carcere di massima sicurezza a Florence, Colorado. Tra le vittime dell’ingerenza statunitense nella giustizia colombiana c’è anche la guerrigliera “Sonia”, che ha dovuto subire una condanna di 11 anni in un carcere americano e ancora oggi, in Colombia, si trova sotto libertà vigilata.
Una strage di firmatari della pace e non solo
Dopo la firma dell’accordo si è registrato un vero e proprio boom di omicidi di ex-guerriglieri e persone attive al fianco delle fasce più vessate della società colombiana. Dal 24 novembre 2016 al 15 luglio 2020 sono state uccise 921 persone tra leader indigeni, contadini, neri, sindacalisti, donne e ambientalisti; a questi si aggiungono gli oltre 200 ex-combattenti uccisi in meno di 4 anni. Di questi omicidi, oltre 200 si sono registrati nel solo 2020 e quasi 100 durante il periodo di “lockdown” per il covid19[3][4].
Con il disarmo della principale forza di opposizione, l’establishment ha trovato via libera per sottomettere ogni voce di protesta mediante la violenza. L’accordo di pace che apparentemente doveva servire ad “allontanare le armi dalla politica”, in realtà è servito per lo sterminio fisico degli oppositori.La precaria situazione ha obbligato centinaia di guerriglieri – dissidenti rispetto alla direzione opportunista del Partito della Rosa – a tornare sui monti e riprendere le armi, ritenendo che le cause politiche e sociali che hanno dato origine al conflitto armato non sono state superate, né tantomeno lo è il terrorismo di Stato. Tra questi si trovano lo stesso Jesús Santrich (riuscito ad evadere ai controlli che pesavano su di lui), Oscar Montero “El Paisa” e Iván Marquez, comandante del Blocco Sud e del Blocco Caribe, i quali nell’agosto del 2019 hanno dato vita alla nuova organizzazione armata delle FARC-EP, “Segunda Marquetalia”, che si pone in continuità con l’organizzazione originaria riprendendo il cammino dei comandanti Marulanda e Jacobo Arenas iniziato nel 1964. In merito si è espresso il Partito Comunista Clandestino di Colombia (PCCC, storico braccio politico della guerriglia): «I comunisti hanno il dovere etico e politico di rispettare e considerare le ragioni di chi crede nella via della rivolta armata, senza perdere di vista il fatto che non sono stati i ribelli in Colombia a generare le cause dello scontro, né sono stati loro a tradire gli accordi. È quindi una mascalzonata accusarli di essere “disertori della pace”. La determinazione a continuare nella clandestinità non obbedisce a capricci della guerriglia o dei comunisti che vedono chiusi o troppo ristretti gli spazi per la lotta aperta. E questa posizione che deriva da una necessità imposta dal carattere del regime, non toglie nulla alla condizione politica che ispira le nostre ragioni. Tantomeno quando ogni giorno non solo si moltiplicano le cause all’origine della rivolta armata ma sono più evidenti e straripa la guerra sporca e la persecuzione contro chiunque non coincida con le politiche dell’establishment»[5].
E mentre i guerriglieri che hanno accolto il processo di pace continuano a morire assassinati insieme a militanti e dirigenti di realtà che operano nel sociale, la stampa borghese e il governo borghese e filo-americano di Ivan Duque si impegnano a definire coloro che sono tornati alle armi come “narcotrafficanti che non rispondono ad alcuna ideologia”, cercando così di sottrarre al conflitto colombiano la sua vera natura politica, banalizzandolo con la semplice violenza da criminalità. Questa viscida calunnia è alimentata anche dai dirigenti opportunisti del partito della Rosa, in particolare Timoleón Jiménez (Timochenko) e Carlos Antonio Lozada, responsabili della linea capitolatrice con il tradimento della causa e la rinuncia ai principi comunisti, secondo quanto affermato in una recente intervista da Jesús Santrich che riferisce – tra le altre cose – come la “consegna delle armi” non fu mai concordata e approvata ma fu frutto di una imposizione fraudolenta da parte della dirigenza, attraverso la distorsione della linea e la manipolazione della comunicazione interna[6].
Agosto segnato dal sangue
Che il processo di pace sia ormai in frantumi a causa del tradimento e della perfidia istituzionale al servizio dell’oligarchia lo si può vedere dal numero di massacri registrati quest’anno (almeno 40). Solo durante il mese di agosto, si sono registrati 10 massacri in diversi punti del Paese che hanno prodotto una cinquantina di morti, molti dei quali minorenni. Quello che ha fatto più scalpore — per la giovane età delle vittime — si è registrato la sera del 11 agosto a Cali, quando 5 ragazzi neri di età comprese tra i 13 e i 16 anni, sono stati uccisi in un campo di canna da zucchero senza un apparente motivo. Pochi giorni dopo si sono registrati altri massacri nei dipartimenti di Cauca e Nariño (Sud), due delle zone con maggiori coltivazioni di coca al mondo. A Corinto (Cauca) due indigeni sono stati uccisi a colpi d’arma da fuoco dall’esercito, mentre venivano sgomberati forzatamente dai loro insediamenti[7].
Secondo il governo colombiano, le morti sono dovute a “scontri tra bande armate legate al narcotraffico”, e tra queste “bande” segnala anche i gruppi guerriglieri (FARC-EP, ELN, EPL) che respingono queste false accuse attribuendo i massacri alla polizia e esercito in alleanza con i gruppi paramilitari dei narcos che agiscono con impunità.Il presidente Iván Duque ha chiesto di non chiamarli massacri ma “omicidi collettivi”[8], cercando con questo eufemismo di nascondere la realtà e la gravità di quanto sta avvenendo. Il governo ha ammesso che le vittime degli “omicidi collettivi” degli ultimi due anni salgono a quota 188. [9]
Álvaro Uribe: la figura più influente della politica colombiana, ora ai domiciliari
La politica colombiana degli ultimi 20 anni è stata segnata in modo indelebile dalla presenza di Álvaro Uribe Vélez, presidente durante due periodi consecutivi (2002-2006, 2006-2010), viene considerato l’ideatore e propulsore dei gruppi paramilitari colombiani (responsabili — secondo l’ONU — dell’80% delle vittime civili della guerra interna)[10] così come della loro infiltrazione nella politica che conta. A suo carico pesano accuse per paramilitarismo, narcotraffico, compravendita di testimoni e voti, stragismo e altro ancora, accuse che portano il numero di denunce contro di lui intorno a 200. Uribe viene anche segnalato come il principale responsabile dei “falsos positivos”[11] (falsi positivi, eufemismo per riferirsi ai civili innocenti uccisi nel periodo 2006-2009 dall’esercito e fatti passare come guerriglieri, in modo da riscuotere premi economici). Infatti fu durante il suo governo che venne emesso il Decreto 029 del ministero della difesa, dove si introducevano incentivi economici per le unità dell’esercito in base alla quantità di sovversivi abbattuti.
Iniziatosi in politica nella Medellin dei primi anni Ottanta, fu eletto senatore nel 1986. Nel ’91 fu incluso in una lista di sospetti alleati del narcotraffico elaborata dall’intelligence americana. Nel '95 divenne governatore del dipartimento di Antioquia (Medellin, nordovest), da dove finanziò e incentivò la conformazione delle Convivir (cooperative di vigilanza dei proprietari terrieri contro i gruppi guerriglieri, che più tardi sarebbero passate alla clandestinità come Autodifese Unite di Colombia (AUC), organizzazione paramilitare responsabile di almeno 100 mila morti in dieci anni). Durante la sua gestione si registrarono in Antioquia i massacri paramilitari di San Roque, La Granja ed El Aro. Proprio in riferimento ai fatti di El Aro le testimonianze parlarono di almeno un elicottero del governo di Antioquia che sorvolò più volte il paese e si fermò a rifornire i paramilitari mentre seviziavano la popolazione[12].
Nonostante i legami narco-paramilitari e i massacri, i media riuscirono a presentare Uribe come un politico determinato e un efficiente amministratore pubblico. Grazie a questa buona pubblicità e al sostegno dell’oligarchia colombiana, Uribe raggiunse nel 2002 la presidenza di una Colombia che aveva il 40% del territorio sotto il controllo delle FARC e dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale).
Gli interessi imperialisti di Washington in territorio colombiano portarono milioni di dollari in equipaggiamento militare per l’esercito, il quale, insieme a una strategica alleanza con i paramilitari, riuscì a far retrocedere la guerriglia ai minimi storici, riportando la guerra nelle campagne lontane dai centri urbani, dove i crimini sarebbero passati inosservati da buona parte dell’opinione pubblica.La complicità dei media nazionali e internazionali fu fondamentale per permettere al governo di Uribe di condurre una guerra sporca non solo contro la guerriglia, ma contro ogni elemento di opposizione politica e sociale. Spionaggio contro politici e attivisti, simbiosi tra esercito e paramilitari e l’entrata del paramilitarismo in politica, furono la marca da bollo dei due governi Uribe. E così, mentre in Colombia dal 2002 al 2010 si sono registrati 403 massacri, 6430 omicidi politici e oltre 24 mila sparizioni, all’estero la figura di Uribe Vélez si ergeva come il contrappeso a quella di Hugo Chávez. Il modello colombiano di “pugno di ferro” contro la guerriglia e di politiche neoliberiste veniva spacciato come “l’alternativa di successo” al modello chavista in Sudamerica.
Nessuno tra i grandi media borghesi osò mai criticare la fusione tra Stato e paramilitari avvenuta durante il suo governo, non ci furono sanzioni dell’UE per le continue violazioni dei diritti umani e gli USA non pensarono mai di “portare la democrazia” lì, anzi, nel 2009 gli vennero concesse 7 basi in territorio colombiano (misura poi fermata dalla Corte Costituzionale)[13].
L’uribismo ancora oggi è la forza politica maggioritaria e più influente in Colombia. Entrambi i successori di Uribe provengono infatti da questa corrente: Juan Manuel Santos, ex-presidente che firmò la pace con le FARC-EP, è un fuoriuscito dell’uribismo, mentre l’attuale presidente, Iván Duque, è un fedelissimo uribista (tanto da venire considerato un burattino).
Ma la popolarità di Uribe è direttamente proporzionale al numero di cause aperte contro di lui (15 davanti alla Corte Suprema e 45 in commissione legislativa). Quando Uribe era senatore, nel 2014, il deputato del Polo Democratico Alternativo (centro-sinistra), Ivan Cepeda, lo accusò di avere fondato, insieme a suo fratello Santiago, un gruppo narco-paramilitare appartenente alle AUC. Per avallare le sue accuse, Cepeda presentò le testimonianze di alcuni ex-paramilitari, tra cui Juan Guillermo Monsalve, appartenente al Blocco Metro delle Autodifese. Monsalve affermò che in una tenuta di proprietà dell’ex-presidente si svolsero alcune riunioni per pianificare dei massacri che poi sono stati eseguiti da questi gruppi paramilitari.
Come risposta a questa accusa, l’ex-presidente presentò una denuncia per calunnie contro Cepeda davanti alla Corte Suprema. Alcuni degli ex-paramilitari, come Monsalve, che prima avevano testimoniato contro Uribe, davanti alla Corte fecero “dietrofront”, modificando radicalmente le loro versioni. Questo comportamento insospettì i magistrati, che cominciarono a indagare sui testimoni. Fu così che scoprirono che Uribe, tramite il suo avvocato Diego Cadena, aveva esercitato pressioni sui testimoni per farli ritrattare. Monsalve afferma di avere in possesso la registrazione del momento in cui l’avvocato gli intimò di cambiare versione. Altri testimoni hanno riconosciuto di avere ricevuto soldi da parte di Cadena. L’avvocato ha anche ammesso di avere consegnato piccole somme di denaro agli ex-paramilitari, ma a modo di “aiuto umanitario”. Fu così che lo scorso 4 agosto, la Corte Suprema ha ordinato l’arresto di Álvaro Uribe[14]. Una misura senza precedenti in un Paese che comunque è abituato a vedere gli ex-presidenti sul banco degli imputati.
Risulta evidente che l’influenza di Uribe non coinvolge solo la politica, ma anche il mondo della criminalità narco-paramilitare. Durante la sua presidenza — a tradimento — fece estradare negli Stati Uniti diversi capi paramilitari, suoi alleati nei primi anni di governo. Tra questi si trovano Salvatore Mancuso, Diego Murillo (“Don Berna”) e Rodrigo Tovar Pupo (“Jorge 40”), richiesti dalla giustizia americana per traffico di cocaina. In questo modo Uribe riuscì a tenere lontani e a tacitare possibili “testimoni scomodi”. Al giorno d’oggi è minimo il numero di paramilitari rimpatriati in Colombia.
Salvatore Mancuso: un’estradizione in Italia che potrebbe sancire la totale impunità
L’ultimo capo noto delle AUC è stato Salvatore “El Mono” Mancuso, proprietario terriero e narcotrafficante di origini salernitane. La giustizia colombiana lo ritiene responsabile di almeno 30 mila crimini[15] — quasi tutti contro l’umanità — tra gli anni 90 e il 2005, quando si accodò al processo di smobilitazione delle autodifese. Nel 2008 è stato estradato negli Stati Uniti, dove ha scontato una pena di 190 mesi per narcotraffico. Dal carcere ha raccontato di avere collaborato con Álvaro Uribe prima e durante il suo governo. Ha anche parlato del rapporto simbiotico che esisteva tra paramilitari e partiti politici durante gli anni duemila (la cosiddetta “parapolitica”).
Mancuso non ha ancora pagato per le migliaia di crimini commessi in Colombia, e probabilmente non lo farà mai, dati i tentativi di deportarlo in Italia, dove lo attende la Procura di Catanzaro per i suoi legami con la ‘Ndrangheta[16].
Risulta paradossale che a gestire il rimpatrio di Mancuso in Colombia sia stato proprio un suo vecchio socio nel malaffare, Francisco “Pancho” Santos, attuale ambasciatore della Colombia negli Stati Uniti. Pancho Santos giudizialmente risulta complice di Mancuso nella conformazione di squadroni della morte nelle città di Bogotà e Bucaramanga nel 2000.
Forse è un caso, ma la procedura di estradizione avanzata dallo stato colombiano agli Stati Uniti ha presentato degli errori che hanno permesso agli avvocati di Mancuso di rigirare la frittata e riuscire ad evitare la giustizia colombiana, con il trasferimento in Italia che era previsto per il 4 settembre. Procedura che è stata però fermata il 29 agosto, con le autorità statunitensi che hanno cambiato a sorpresa la sentenza decidendo per l’estradizione in Colombia senza che sia però ancora esecutiva dando la possibilità di fare appello per rimanere negli Stati Uniti.Oltre ai massacri, omicidi e sparizioni mai chiarite di sindacalisti, dirigenti e attivisti sociali, comunisti e popolazione civile “colpevole” di vivere su terreni che dovevano diventare piantagioni o miniere, Mancuso è testimone fondamentale in innumerevoli operazioni di riciclaggio del narcotraffico tramite società di cui deteneva quote e che si sono avvalse delle banche colombiane a tale scopo. Le sue dichiarazioni possono segnare un punto di svolta nella ricerca dei mandanti di centinaia di morti che hanno scosso la Colombia dagli anni '90 ad oggi. Vedremo gli sviluppi, ma, a quanto pare, per buona parte dell’establishment colombiano, vale molto di più il suo silenzio.
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