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08/09/2020

Navalny e il veleno dell’Occidente

L’operazione che sta dietro al vero o presunto avvelenamento dell’oppositore del Cremlino, Alexei Navalny, sembra avere fatto nel fine settimana un passo importante verso quello che potrebbe essere il suo principale obiettivo. Questa sensazione si è avuta domenica, dopo che il governo tedesco, nonostante i moltissimi aspetti oscuri, per non dire assurdi, della vicenda, ha preso una posizione per certi versi clamorosa collegando per la prima volta il caso del “dissidente” russo alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2.

Quest’opera dovrebbe com’è noto raddoppiare le forniture di gas naturale russo alla Germania passando attraverso il Mar Baltico e, in maniera cruciale, aggirare l’Ucraina, la quale perderebbe così un’importante fonte di entrate dai diritti di transito. Il progetto è da tempo osteggiato dagli Stati Uniti e dagli ambienti più irriducibilmente filo-americani in Europa e nella stessa Germania.

Da Washington si sta cercando in tutti i modi di impedirne il completamento ed esponenti dell’amministrazione Trump hanno più volte affermato esplicitamente le loro intenzioni. Il Nord Stream 2, a cui lavora un consorzio che include svariate compagnie europee, è completato ormai per oltre il 90%, ma le sanzioni dello scorso anno decise dal governo USA hanno provocato ritardi, così che i governi di Mosca e Berlino sono stati costretti a cercare soluzioni alternative per concludere un’infrastruttura da 11 miliardi di dollari.

Molti commentatori, al momento dell’avvelenamento di Navalny, avevano subito ipotizzato un collegamento tra il suo caso e il Nord Stream 2, soprattutto dopo che il politico-attivista russo era stato trasferito a Berlino con il consenso del Cremlino. La cancelliera Merkel, da parte sua, aveva escluso che i fatti relativi a Navalny fossero da collegare alla costruzione del gasdotto, ritenuto ufficialmente dal suo governo un’opera strategicamente indispensabile. Domenica, però, il ministro degli Esteri socialdemocratico, Heiko Maas, l’ha in parte smentita.

In un’intervista al giornale filo-atlantista Bild, Maas ha invitato “i russi a non costringerci a cambiare la nostra posizione sul Nord Stream 2”. Berlino vuole “risposte” concrete sul caso Navalny e, se Mosca “non contribuirà alle indagini [sull’avvelenamento] nei prossimi giorni”, la Germania dovrà “consultarsi” con i propri partner europei e della NATO, per poi valutare, come sempre, possibili sanzioni che potrebbero riguardare anche il gasdotto.

Forse in conseguenza delle ben note divisioni all’interno della classe politica tedesca sulla sorte del Nord Stream 2, Maas ha avvertito che l’eventuale precipitare dei rapporti con la Russia comporterà pesantissime conseguenze anche per le compagnie tedesche coinvolte nel progetto. Ancora venerdì scorso, infatti, Bloomberg News aveva scritto che né i cristiano-democratici né i socialdemocratici, partner di governo a Berlino, sembrano essere intenzionati a muoversi per boicottare il Nord Stream 2, vista la crucialità del gasdotto per l’industria tedesca. Ciononostante, il fatto che importanti esponenti del gabinetto Merkel siano alla fine venuti allo scoperto sulla questione testimonia sia delle pressioni anti-russe all’opera in questo frangente, sia dei possibili tentennamenti della coalizione di governo.

Anche il ministro della Difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer, ex leader della CDU scelta dalla Merkel, nella giornata di domenica ha fatto eco alle dichiarazioni di Maas. Il malore e il ricovero di Navalny sono stati sfruttati inoltre dall’opposizione nel parlamento di Berlino, dove un gruppo sostanzioso di deputati, guidati da quelli dei Verdi, ha chiesto lo stop alla costruzione del Nord Stream 2.

All’offensiva hanno partecipato anche elementi esterni alla Germania, come il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian. Più di cento europarlamentari hanno invece indirizzato una lettera al responsabile della politica estera UE, Josep Borrell, per chiedere un’indagine sull’accaduto, “all’interno delle strutture delle Nazioni Unite o del Consiglio d’Europa”. Ancora più apertamente, sabato un altro gruppo di una qualche decina di europarlamentari ha fatto un appello specifico all’interruzione dei lavori per il completamento del gasdotto russo-tedesco.

Malgrado le incertezze del governo Merkel, era stata la stessa cancelliera a dare il via libera all’assalto contro il Cremlino quando mercoledì scorso, in una conferenza stampa, aveva affermato che per gli esperti militari tedeschi non vi erano dubbi sul fatto che Navalny fosse stato avvelenato con una sostanza appartenente alla famiglia del Novichok.

Una sostanza simile era stata ufficialmente identificata nel 2018 come responsabile dell’avvelenamento dell’ex ufficiale dell’intelligence russa, diventato spia britannica, Sergey Skripal. Anche in quel caso non vi erano prove delle responsabilità di Mosca e la ricostruzione degli eventi offerta da Londra sarebbe stata smontata da svariate analisi indipendenti. Il Novichok, tuttavia, in Occidente è da allora diventato sinonimo dei metodi gangsteristici del Cremlino per eliminare i propri avversari, tanto che è stato goffamente riciclato per l’operazione Navalny.

L’intera vicenda ha l’aspetto di un’operazione costruita a tavolino appunto per ostacolare il progetto Nord Stream 2 e, più in generale, il faticoso evolversi del rapporto tra Russia e Germania, anello fondamentale del processo di integrazione euro-asiatica che, per l’orrore degli ambienti “neo-con” americani, minaccia il formarsi di un blocco strategico-commerciale-energetico tra queste due potenze e la Cina.

Analizzata razionalmente e al di fuori dell’isteria dei media “mainstream”, la versione ufficiale del caso Navalny fa acqua da ogni parte. L’interrogativo più grande resta quello della condotta dei russi. Non è esattamente chiaro, cioè, il motivo per cui, dopo avere tentato di uccidere per avvelenamento Navalny, il Cremlino abbia dato il via libera al suo trasferimento in Germania dove, evidentemente, la sostanza tossica sarebbe stata subito individuata e messa a disposizione di una nuova operazione di propaganda.

Se, poi, l’intenzione di Putin era quella di uccidere il suo presunto rivale, molto difficilmente quest’ultimo avrebbe potuto sopravvivere. L’utilizzo sul suolo russo del Novichok o di altre sostanze simili ha allo stesso modo poco senso. Se il regime di Putin, come si sostiene in Occidente, ricorre puntualmente all’eliminazione degli avversari politici, avrebbe com’è ovvio utilizzato metodi ben più efficaci per liquidare Navalny. Anche accettando la tesi dell’avvelenamento, non si capisce la ragione per cui i servizi segreti russi o comunque gli esecutori materiali dell’operazione abbiano optato per una sostanza che non solo aveva già fallito nell’uccidere Sergey Skripal e sua figlia nel 2018, ma che, vista la campagna scatenata allora dai governi occidentali, se scoperta avrebbe fornito automaticamente una nuova occasione per puntare il dito contro Mosca.

A dir poco sospetta, oltre che ridicola, è inoltre la rapidità con cui la Germania è arrivata a chiudere il caso. Tanto più che le analisi sui campioni biologici di Navalny sono state effettuate da un organo non esattamente indipendente, bensì da un laboratorio delle forze armate tedesche che, con ogni probabilità, già al momento del suo trasferimento da un ospedale siberiano a Berlino, aveva nelle proprie mani l’esito desiderato per scatenare un nuovo polverone contro la Russia.

È interessante anche notare l’ipocrisia e la cattiva fede di quanti gridano allo scandalo per i metodi brutali del Cremlino minacciando sanzioni punitive pur in assenza di uno straccio di prova delle responsabilità russe. Basti pensare a come non ci sia stata nessuna iniziativa reale, al di là della retorica, dopo altri omicidi nel recente passato pur in presenza di prove o forti indizi che rimandavano a personalità e organi di governo. Gli esempi più famosi sono quelli dei giornalisti Jamal Khashoggi (Arabia Saudita), Daphne Caruana Galizia (Malta) e Jan Kuciak (Slovacchia).

Un altro aspetto da non trascurare nel caso Navalny è che l’oppositore di Putin potrebbe effettivamente essere stato vittima di un tentativo di avvelenamento, ma gli elementi esposti in precedenza e altri ancora portano a pensare eventualmente a responsabilità diverse da quelle del Cremlino. Ciò spiegherebbe anche la grossolanità e il fallimento del piano per assassinarlo.

Navalny non rappresenta in realtà un problema significativo per il governo di Mosca, perché il suo seguito in patria è minimo. Secondo un recente sondaggio indipendente, il gradimento popolare di un politico che, va ricordato, ha legami profondi con l’estrema destra e ha spesso manifestato sentimenti razzisti, risulta attorno al 2%. La celebrità di Navalny è piuttosto un fenomeno tutto occidentale ed è determinato, in larga misura, dai suoi legami con alcuni potenti oligarchi russi.

Navalny potrebbe così essere finito in un gioco di potere che si spiegherebbe in due modi: col tentativo di eliminarlo da parte di ambienti da ricondurre a centri di potere regionale contro cui Navalny ha condotto di recente alcune battaglie politiche o di una fazione dell’apparato di potere ostile a Putin che cerca di alimentare lo scontro tra Mosca e l’Occidente al fine di favorire un cambio di regime in Russia e ribaltare le prospettive strategiche di questo paese.

L’ipotesi più probabile, soprattutto se si valutano le conseguenze per il Cremlino, resta comunque quella di un’operazione orchestrata dall’Occidente, con o senza la collaborazione di elementi russi. Quel che è certo è che la patetica propaganda di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington non farà nulla per fare chiarezza sui fatti, visto che punta precisamente a confonderli.

Per il momento, il dato strategico e politico più rilevante che potrebbe emergere dalla vicenda è la possibile definitiva rottura del rapporto tra Russia e Germania, peraltro in bilico da tempo. Da valutare attentamente sarà perciò l’atteggiamento del governo Merkel nel gestire una crisi che tocca alcuni dei nodi fondamentali per la classe dirigente tedesca, combattuta tra le pressioni degli alleati, la difesa degli interessi nazionali e le ambiguità delle strategie con cui intende imporsi nella nuova realtà globale che guarda sempre più verso oriente.

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