La situazione che si è venuta a determinare in parte del territorio ex-sovietico in tre Stati con cui la Russia intrattiene stretti rapporti: Bielorussia, Nagorno-Karabach e Kirghizistan è una chiara manifestazione della “guerra fredda di nuovo tipo” che sempre più opporrà i tre maggiori blocchi geo-politici: USA, UE e la partnership strategica tra Russia e Cina.
L’esito nella partita che si è aperta nel Nuovo Grande Gioco nel Caucaso sarà fondamentale per i futuri equilibri geo-politici.
L’accerchiamento della Russia dai Paesi Baltici al Caucaso e la rottura dello spazio euro-asiatico tra Pechino e il “Vecchio Continente” sembrano essere i principali motori di questa nuova composita azione.
Questo processo vede agire in prima persona differenti attori di taglia inferiore “a geometria variabile”, ma che assumono un ruolo di primo piano: Lituania e Polonia – in concorso con l’Ucraina – per ciò che riguarda la situazione in Bielorussia; Turchia e Israele per ciò che concerne il conflitto tra Armenia e Arzerbaigian.
L’Iran in merito al conflitto armeno-azero teme l’ipotesi dell'apertura di un “conflitto regionale” che lambirebbe i suoi confini, trovando i “tagliagole jihadisti” che ha combattuto in Siria e in Iraq di nuovo alle proprie porte e con una importante popolazione della Repubblica Islamica di origine azera, tenendo conto della medesima matrice culturale sciita che Teheran condivide con Baku.
La Francia – che ha un importante comunità armena nel proprio territorio – risulta essere il Paese europeo che insieme alla Grecia – che ha differenti contenziosi aperti con Ankara ed una storia di conflitti con quest'ultima – condannano con più forza l’offensiva militare azero-turca. Parigi cerca di usare l’Armenia per inserirsi nel Grande Gioco Caucasico, tenendo conto che con la Brexit l’importante ruolo che svolge la gran Bretagna in Arzerbaigian dall’inizio del nuovo millennio grazie alla British Petroleum verrà meno come perno della politica continentale.
In generale Parigi sta operando da testa di ponte per la riconfigurazione degli interessi nell’area, cui contribuisce con un profilo drasticamente minore e più subordinato anche l’Italia.
Le sanzioni della UE a Bielorussia e Russia
L’Unione Europea ai primi di ottobre ha deciso la promulgazione di sanzioni a 40 personalità dell’establishment bielorusso – ma non del suo Presidente che non considera legittimo – che comprendono il congelamento dei conti e il divieto di viaggio, così come l’impossibilità di intrattenere rapporti economici con questi da parte delle aziende europee.
È stato il capo della diplomazia europea Josep Borrell a dichiarare esplicitamente che: “L’Unione Europea è pronta a imporre misure restrittive aggiuntive se la situazione non migliorerà”.
A guidare l’offensiva diplomatica dell’asse franco-tedesca è stato il Presidente Macron che ha dichiarato pubblicamente in una intervista esclusiva al giornale «JDD» il 27 settembre che Lukashenko avrebbe dovuto andarsene, alcuni giorni prima della sua visita nei Paesi Baltici dove ha incontrato l’autoproclamata leader dell’opposizione bielorussa auto-esiliatasi a Vilnius Tikhanovskaya, dopo che l’“ambasciatore delle oligarchie europee” Bernard Henry Levy l'aveva incontrata ad inizio giugno.
Va ricordato che nel 2016 l’Unione Europea revocò le sanzioni a 169 figure legate al governo bielorusso, aprendo al Paese tradizionalmente allineato alla Russia margini per una relazione che si è di fatto richiusa in questi giorni.
La Bielorussia ha promesso contro-sanzioni ed ha ritirato i suoi ambasciatori dalla Polonia e dalla Lituania, oltre a “congelare” gli accrediti per i giornalisti occidentali. Il suo ministro degli Esteri ha affermato che “Un quarto di secolo non è stato sufficiente all’UE per raggiungere un accordo di partenariato e di cooperazione con la Bielorussia, ma una manciata di settimane le sono bastate per introdurre sanzioni”.
Questa iniziativa era prevista già ad agosto, ma non si è realizzata a causa dell’opposizione di Cipro – tale decisioni prevedono l’unanimità – che avrebbe voluto l’UE sanzionasse prima la Turchia a causa della sua politica nel Mar Mediterraneo Orientale. Si è giunti poi ad un compromesso con lo Stato cipriota – cui una parte è occupata militarmente dalla Turchia dal 1974 – che prevede la possibilità di azioni economiche contro Ankara in cambio dell’approvazione delle sanzioni contro la Bielorussia. L’UE, dunque, segue Gran Bretagna e Canada che hanno varato sanzioni – le prime nella storia del Paese britannico contro un Presidente legittimo – contro alcune personalità tra cui Lukashenko, e prima degli USA in una conflitto che non sembra scemare, nonostante la capacità di tenuta interna dimostrata dalla Bielorussia.
Bruxelles è molto assertiva e tra le altre cose chiede l’apertura di un dialogo nazionale inclusivo e l’indizione di nuove elezioni, considerando illegittime quelle che hanno confermato Lukashenko con circa l’80% dei consensi.
Le sanzioni giungono dopo che il Presidente russo aveva assicurato prestiti ed una maggiore cooperazione in termini di sicurezza al suo omologo bielorusso, rinsaldando uno storico legame e facendo rientrare definitivamente Minsk nella propria orbita a meno che del verificarsi di rotture simili a quelle consumatesi in Ucraina nel 2014.
Ma l’azioni sanzionatoria della UE non sembra esaurirsi qui.
In un comunicato congiunto dei propri Ministri degli Esteri, Francia e Germania hanno dichiarato di promuovere nuove ed ennesime sanzioni contro la Russia in quanto non avrebbe fornito una “spiegazione credibile” rispetto al supposto avvelenamento del dissidente Alexei Navalny, discutendone questo lunedì in Lussemburgo nella riunione dei Ministri degli Esteri dell’Unione.
Un fatto importante che amplifica i provvedimenti intrapresi per un fatto analogo – avvenuti però allora nel territorio dell’Unione – riguardante l’avvelenamento dell’ex spia russa in Gran Bretagna Skripal e della figlia nel 2018, di cui è stata accusata la Russia. In un momento in cui si moltiplicano le pressioni degli USA e dei suoi maggiori alleati in UE per non far completare la realizzazione della pipe-line “Nord Stream 2”, l’azione dell’asse franco-tedesco – anche se i suoi leader hanno ribadito di voler escludere l’ipotesi dello stop alla conduttura energetica tra Russia ed UE quasi completata – non fa che complicare i rapporti tra Bruxelles e Mosca.
Il ventre mollo Caucasico territorio conteso nello spazio post-sovietico
Al permanere della “crisi bielorussa” scoppiata in seguito alle contestazioni dei risultati elettorali ad inizio agosto, si è aggiunta in un primo momento la nuova escalation militare armeno-azera che per lunghezza ed intensità dello scontro in atto rimanda agli anni 1991-1994, fino all’accordo per il “cessate il fuoco” – raggiunto grazie alla mediazione di Mosca – formalizzato dopo più di dieci ore di trattativa nella notte tra il 9 ed il 10 ottobre.
Quello armeno-azero è stato uno dei più sanguinosi conflitti – insieme a quello ceceno – successivi alla conflagrazione dell’URSS: 30 mila morti, 400 mila profughi armeni e circa il doppio azeri.
Da lunedì 5 ottobre la situazione in Kirghizistan con le mobilitazioni contro i risultati elettorali – invalidate dall’apposita commissione – hanno portato di fatto all’“evaporazione” del potere costituito a Bishkek e alla liberazione del vecchio presidente che era in stato di detenzione, con la destituzione di fatto di Sooronbay Jeenbekov, che in un comunicato di venerdì 9 ottobre si è detto disposto a rimettere i poteri insieme alle istituzioni governative: “quando delle autorità legittime saranno approvate con un ritorno alla legalità”.
Si profila il pericolo di “balcanizzazione” per questo Paese di 6 milioni di abitanti tradizionalmente diviso tra i clan urbani e industriali del nord, e quelli rurali del sud.
Due “fazioni” si oppongono Sadyr Japarov che una parte dell’opposizione ha eletto come primo ministro in una dubbia sessione parlamentare il 6 ottobre, e Omourbek Babanov, battuto dall’attuale presidente nel 2017, uomo d’affari riparato ai tempi in Russia.
Il quadro attuale è caratterizzato dallo scontro, anche armato, per occupare posizioni di potere, con lo stato d’urgenza dichiarato nella capitale Bishkek, mentre i siti estrattivi di carbone e oro nel resto del Paese sono occupati da gruppi armati ed hanno sospeso la loro attività. Una situazione simile alle “rivoluzioni” del 2005 e del 2010.
Il Paese è stremato dalle conseguenze del Covid 19, con una caduta di circa il 10% del PIL ed il traffico con la confinante Cina pressoché dimezzato, ed un milione di immigrati kirghisi rientrati dalla Russia, un sesto della popolazione.
Nei tre Paesi in cui si è aperta una crisi – Bielorussia, Armenia e Kirghizistan – la Russia ha basi militari; questi paesi, insieme al Kazakistan fanno parte dell’Unione Economica Euroasiatica (EEU), ed insieme al Tajikistan fanno parte dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione sulla Sicurezza (CSTO) che è un accordo militare.
Diversi sono gli attori che agiscono in questo quadro di destabilizzazione dello status quo che alza il livello dell’asticella delle sfide che si profilano per Mosca in questo scenario in movimento, aprendo differenti fronti proprio nei punti di maggiore criticità dello spazio post-sovietico nel “ventre mollo” caucasico. Le elezioni che si terranno il mese prossimo in Moldavia, Georgia e Tajikistan e quelle che si terranno in Kazakistan del dopo-Nazarbayev – uno forse delle realtà statuali più stabili nell’area – a gennaio contribuiscono a configurare un quadro pieno di incertezze dagli imprevedibili sviluppi.
Uno dei maggiori fattori di destabilizzazione potrebbe rilevarsi il possibile “ponte” per gli jihadisti reclutati come contractors dalla Turchia in Siria spostati sul terreno bellico armeno-azero pronti a proiettarsi in tutto il Caucaso fino al territorio cinese dello Xinjiang, con un “effetto boomerang” del conflitto siriano.
Una delle azioni che ha intrapreso Mosca quest’anno è proprio quella contro gli jihadisti “alle sue porte” che è riuscita a neutralizzare con difficoltà e sacrificio – si pensi solo agli effetti del terrorismo ceceno – ma che costituiscono una minaccia endemica considerando tra l’altro che alcuni di essi hanno combattuto come foreign fighters nel conflitto siriano, e le continue operazioni anti-terroristiche russe.
Questo crocevia euro-asiatico era tornato ad essere strategico per l’amministrazione nord-americana come ha dimostrato il viaggio effettuato dall’allora Consigliere della Sicurezza Nazionale John Bolton alla fine del 2018 e dal suo pervicace ed inutile tentativo di “slegare” l’Armenia dell’attuale leader Pashinyan – uscita dalla “Rivoluzione di Velluto” del 2018 dall’orbita di Mosca – e cercare di far avere un maggiore peso agli USA nella risoluzione del conflitto armeno-azero bypassando l’influenza degli altri due membri del gruppo ristretto di Minsk (Russia e Francia), creato nel 1992 per cercare di dare uno sbocco politico alla guerra tra i due Paesi.
Un viaggio che aveva suscitato reazioni piuttosto negative da parte del Cremlino per le audaci proposte di Bolton.
Schiacciato tra Russia e Iran, il Caucaso è una regione vitale per la sicurezza energetica europea – a cominciare dal corridoio energetico (BTC) attivo dal 2005 che da Baku attraverso la Georgia e sbocca dalla Turchia nel Mediterraneo – che aggira i rifornimenti russi, e uno snodo logistico fondamentale di accesso all’Asia Centrale e all’Afghanistan per gli Stati Uniti.
Il nuovo porto azero di Alat, oltre a essere l’inizio della nuova pipe-line Baku-Tblisi-Kars (aperta il dicembre del 2017) e la sua Zona Economica Speciale è poi un hub fondamentale per il commercio UE-Cina e Russia-Iran-India, dove ciò che arriva da Russia, Asia Centrale e Iran può ripartire in ferrovia verso l’Europa.
Nella prospettiva di Washington gli stati caucasici possono svolgere la funzione di un “triplo contenimento simultaneo” nei confronti della Russia, dell’Iran e della Turchia, così come interrompere quell’asse euro-asiatico che gli strateghi statunitensi vedono da tempo come il fumo negli occhi, convinzione rafforzata dal progetto della “Nuova Via della Seta”.
Nella gerarchia statunitense Bolton aveva definito rispettivamente per gradi decrescenti l’importanza di Georgia, Arzerbaigian ed Armenia: “di grande importanza strategica”, “d’importanza strategica” e “rilevante importanza”.
Il Grande Gioco nel Caucaso quindi ha sia un elevato profilo geo-politico di carattere strategico, ma è anche un campo di competizione tra differenti blocchi economici, che vede il polo della UE costretto a proiettarsi in autonomia cercando di infilarsi come un cuneo nella tradizionale rivalità russo-americana nello spazio post-sovietico.
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