Recentemente sul ilSole24ore, quotidiano di Confindustria, è stato pubblicato un articolo dal titolo significativo: “L’Europa superi il pregiudizio contro gli investimenti pubblici”[1].
Nell’articolo si parla di uno studio dell’Università Cattolica di Milano e di SciencePO di Parigi, a cura di Floriana Carniglia e Francesco Saraceno, che denuncia “il pregiudizio contro gli investimenti pubblici che risale almeno agli anni ’80 ma ha caratterizzato specialmente la fase di consolidamento fiscale fra 2010 e 2015”. Lo studio si concentra sulla parte della spesa pubblica rappresentata dagli investimenti, sottolineando che gli Stati hanno scaricato proprio sugli investimenti i costi dell’austerità. Gli investimenti vanno ripresi, dice il rapporto, ma in modo che siano considerati “non solo come fattore a sostegno della domanda aggregata ma anche come fattore funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale”. In questo senso, sono da rilanciare non solo gli investimenti pubblici tradizionali in infrastrutture materiali, come quelle di trasporto, ma anche quelli che allarghino la definizione stessa di investimento, inteso come tutto ciò che è funzionale alla produttività di lungo termine e alla crescita potenziale, come gli investimenti in ricerca e sviluppo, nel capitale sociale, la spesa mirata a sostenere gli investimenti privati, la lotta all’emergenza climatica e la gestione delle pandemie.
In particolare, sulle politiche per l’emergenza climatica si richiedono investimenti in larga scala, non solo pubblici ma anche quelli attinti al mercato dei capitali privati.
Un articolo del genere sarebbe stato molto difficile a trovarsi sul giornale di Confindustria qualche anno fa e persino prima della Pandemia. Eppure, lo Stato è da sempre la principale leva competitiva del capitale. Marx stesso ha mostrato come lo Stato abbia giocato un ruolo decisivo nella realizzazione della cosiddetta accumulazione originaria, attraverso, tra i vari strumenti, il colonialismo, la guerra, il debito pubblico e il sistema fiscale, ecc.[2]. Mentre Giovanni Arrighi, il principale sociologo italiano del secolo scorso, ha dimostrato, riprendendo lo storico francese Braudel, come il capitalismo non possa né nascere né crescere senza uno stretto, per quanto non sempre manifesto, legame con il potere politico territoriale, rappresentato dallo Stato. Parafrasando Marx, il quale affermava che, per scoprire l’arcano del profitto, bisogna seguire il possessore di denaro nel segreto laboratorio della produzione, dove entra in contatto con la forza lavoro, Braudel dice che, per spiegare l’arcano della produzione degli enormi e costanti profitti, che hanno permesso al capitalismo di prosperare ed espandersi, bisogna seguire il possessore di denaro in un altro laboratorio segreto, situato a un livello superiore, quello dove incontra il possessore del potere politico[3].
Lo Stato, oggi, opera in due modi: a) attraverso lo stimolo monetario, variando i tassi d’interesse sul denaro, ad esempio riducendolo per facilitare gli investimenti nei momenti di crisi, e b) soprattutto attraverso lo stimolo fiscale, ossia attraverso la spesa pubblica, che a sua volta si divide in varie voci, tra cui la spesa per interessi, quella per redditi da lavoro, in conto capitale, ecc.
Negli ultimi decenni si è affermata l’idea che la spesa pubblica non era fondamentale e anzi, oltre una certa soglia poteva essere dannosa per l’economia, e che quindi bisognasse ridurla per poter ridurre il carico fiscale (soprattutto alle imprese e agli alti redditi) in modo da stimolare gli investimenti. Negli Usa, ad esempio, a partire dalla presidenza Reagan, che inaugurò la fase neoliberista, a essere ridotte sono state le tasse ai ricchi e alle imprese, e i trasferimenti alla popolazione, soprattutto in termini di servizi pubblici, mentre la spesa militare, il maggiore stimolo all’economia Usa, è aumentata nella fase finale della guerra fredda e poi, dopo una breve contrazione, è ritornata a livelli alti anche per la ripresa dell’attivismo militare statunitense nella “guerra al terrore” e per il confronto competitivo con la Cina.
L’area euro presenta, a proposito delle due funzioni statali dello stimolo fiscale e monetario, una situazione particolare. Le due funzioni non sono più prerogativa esclusiva dello Stato nazione. Non certo la definizione del tasso d’interesse sul denaro che è stato delegato alla Banca centrale europea (Bce). Per quanto riguarda lo stimolo fiscale, invece, la situazione è più complessa: la spesa pubblica è ancora in capo allo Stato, ma, a parte il fatto che il pareggio di bilancio è stato inserito in Costituzione, l’entità della spesa deve essere approvata dalla Commissione europea e deve conformarsi ai vincoli imposti dai trattati europei, vale a dire che la spesa deve essere contenuta in modo tale da far rientrare il deficit entro il 3% del Pil e il debito pubblico deve tendere a ridursi fino al 60% sul Pil.
Ma non è solo dal punto di vista quantitativo che la Ue esercita un controllo sulla spesa. Un controllo viene esercitato anche sul piano qualitativo, cioè sulle tipologie di spesa, attraverso le raccomandazioni della Commissione europea, che si sono dirette, ad esempio, verso la riduzione del costo del lavoro e verso l’aumento dell’età di pensionamento.
L’Italia, negli ultimi 20 anni, è stata il Paese più disciplinato, dal punto di vista del bilancio, avendo realizzato sempre, eccetto che nel 2009, un surplus del bilancio primario (realizzando più entrate rispetto alle uscite, al netto delle spese per interessi), facendo meglio della stessa Germania. A pagare per questo risultato sono stati i lavoratori pubblici con la riduzione dei redditi da lavoro complessivi che sono passati dall’11% sul Pil del 2009 al 9,7% del 2019[4], e i servizi pubblici, sanità e scuola in primis, che hanno subito tagli importanti. Ma, tra quelle più penalizzate ci sono anche le spese in conto capitale, soprattutto gli investimenti. Il risultato si vede in termini di obsolescenza delle infrastrutture stradali, autostradali e ferroviarie, che è stata causa di non pochi incidenti mortali per gli utenti che se ne servono. In particolare gli investimenti pubblici sono crollati proprio nell’ultima crisi, quella del 2008-2009, passando dal 3,7% del Pil nel 2009 al 2,3% nel 2019. La maggiore disciplina di bilancio, in particolare quella applicata dal governo Monti, ha condotto oltre che al deterioramento di gran parte del patrimonio pubblico infrastrutturale anche a una ripresa molto più fiacca del Pil, che nel 2019 era ancora, in termini reali, inferiore di quasi il 4% al livello pre crisi del 2007. L’Italia era, prima della crisi del Covid-19, l’unico Paese dell’Ue, insieme alla Grecia (-22%), a non avere raggiunto il livello di prodotto interno lordo pre-crisi.
La crisi in atto, se osservata dal punto di vista della contrazione del prodotto interno (la previsione del governo è di un calo intorno al 10%) è la maggiore dall’unità d’Italia, se si eccettuano le contrazioni registrate negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, quando l’Italia era un Paese distrutto e terreno di scontro tra eserciti contrapposti. Lo stesso Draghi in una ormai famosa lettera al Financial Times ha paragonato la situazione attuale a una situazione di guerra, che richiede quindi soluzioni emergenziali. Tale eccezionalità non poteva non riguardare lo Stato, il cui ruolo deve cambiare coerentemente con le nuove necessità del capitale. E l’aspetto più importante, secondo Draghi, è quello del debito pubblico: bisogna aumentare la spesa pubblica senza curarsi dell’aumento del deficit e del debito. Non a caso qualche tempo dopo la lettera di Draghi, la Ue ha deciso di sospendere momentaneamente i vincoli al deficit e al debito, allentando la disciplina di bilancio. Quindi, si realizza una inversione di tendenza rispetto al passato. Ma non è tutt’oro quello che luccica: si tratta di una inversione di tendenza con dei paletti ben precisi. In primo luogo, il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrowskis, e Gentiloni, commissario all’economia, hanno avvertito che, non appena possibile, i vincoli al bilancio dovranno essere ripristinati.
Draghi, inoltre, ha avvertito successivamente che c’è debito e debito. Bisogna fare debito buono, cioè debito che vada non in sussidi ai lavoratori e ai disoccupati, o in pensioni, ma debito che vada a sostenere il capitale, vale a dire quel debito che i mercati finanziari apprezzano e che sono disponibili a finanziare a tassi d’interesse più bassi.
È questo il senso dello studio dell’Università Cattolica di Milano e di SciencePO di Parigi: la spesa che si prospetta debba aumentare è quella mirata a sostenere gli investimenti privati. Nella stessa direzione vanno gli interventi del presidente di Confindustria, Bonomi, che, all’assemblea degli industriali di Vicenza, riferendosi al programma europeo di sussidi e prestiti per la ricostruzione, dichiara: “Le scelte del Recovery Fund siano valutate insieme a noi”[5]. Ciò significa che le scelte di investimento del governo devono essere valutate in base alle necessità del privato. Sulla stessa linea è anche il ministro dell’economia del governo Conte, Roberto Gualtieri. Nell’ultima audizione in Senato, a proposito dei criteri con cui verranno scelti i progetti finanziati dal Recovery Fund, Gualtieri ha affermato: “Oltre ai macro-criteri indicati dall’Europa e declinati dall’Italia, ne sono stati individuati altri tra cui uno che dà la preferenza agli investimenti realizzati tramite partenariato pubblico-privato o che prevedano l’utilizzo di capitali privati”. Gualtieri prevede, poi, un rientro del deficit e del debito, i cui tempi mi sembrano alquanto azzardati, data la profondità della crisi e la durata della pandemia: il debito pubblico dovrebbe arrivare quest’anno al 158% del Pil e ritornare in dieci anni al 130%, cioè al di sotto del livello pre-pandemia. Ma è soprattutto sul deficit che emerge l’eccessivo ottimismo di Gualtieri: sarà al 10,8% sul Pil nel 2020, ma ritornerà al 3% nel 2023[6]. Questo vuol dire che Gualtieri prevede un ritorno allo status quo ante crisi in appena un triennio, quando, invece, per recuperare dalla molto meno acuta crisi del 2008-2009 all’Italia non sono bastati 10 anni.
Come abbiamo detto, lo Stato è la leva competitiva principale nella concorrenza fra capitali. Questo è tanto più vero oggi che all’epoca di Marx, perché dallo Stato dipende un sistema di produzione e riproduzione della forza lavoro molto articolato (scuola, università, sanità, previdenza), perché le infrastrutture sono molto di più estese e differenziate che 100 anni fa, quando c’erano solo le ferrovie, e perché di fatto il capitale non potrebbe andare avanti senza sussidi da parte dello Stato. Quest’ultimo dato è candidamente ammesso dallo stesso Bonomi quando, sempre a Vicenza, dice che, se c’è stata una ripresina tra 2015 e 2017, ciò è stato dovuto a industria 4.0, il programma di aiuti alle imprese che il governo varò in quegli anni per l’adeguamento del parco macchinari al nuovo livello di innovazioni tecnologiche, e che Bonomi, ovviamente, chiede di ripristinare, come in effetti il governo ha fatto, reintroducendolo nella nuova manovra di questi giorni.
La questione degli aiuti di Stato è, quindi, centrale nei rapporti competitivi tra Stati, e soprattutto tra frazioni di capitale.
Non è un caso che l’accordo per una Brexit consensuale tra Regno Unito e Ue si sia arenato proprio sulla questione degli aiuti di Stato, che è la vera materia del contendere.
Bruxelles vuole la creazione, per la risoluzione delle controversie in questa materia, di un nuovo meccanismo composto da un comitato misto e da un collegio arbitrale per giudicare. Londra, al contrario, vuole il pieno controllo del suo regime di sussidi, sostenendo che le regole sugli aiuti di Stato di solito non sono inserite negli accordi di libero scambio. Nel caso in cui non venisse trovato un accordo il Regno Unito dovrebbe commerciare con la Ue secondo le regole del WTO, cosa che comporterebbe la possibilità per entrambi i contendenti di imporre dazi sui beni importanti dalla controparte. In sostanza la Ue vuole evitare che le sue imprese si ritrovino a competere con imprese britanniche che siano maggiormente sostenute dal proprio Stato.
Proprio la questione degli aiuti di Stato, in precedenza soggetti a regole molto più stringenti dalla Ue, è uno degli aspetti che viene ad essere parzialmente modificato a seguito della crisi del Covid-19. La Ue permette l’intervento dello Stato a seguito di un reale fallimento del mercato o di gravi difficoltà di ordine sociale in caso di mancata risoluzione della crisi. In Italia, Invitalia, una società controllata al 100% dal ministero dell’Economia potrà entrare nel capitale delle imprese, anche se in minoranza e in via temporanea, per un massimo di 5 anni. Per ogni operazione il tetto è di 10 milioni, elevabile solo se c’è un cofinanziamento delle regioni. Invece, il Fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività d’impresa del Ministero dello sviluppo economico ha una dotazione complessiva di 300 milioni. Il fondo nasce per la tutela dei marchi storici, ma a seguito della pandemia, con una serie di decreti governativi, è stato ampliato progressivamente, prima a tutte le società di capitale con oltre 250 dipendenti in stato di difficoltà economico-finanziaria e infine a tutte le società, indipendentemente dal numero dei dipendenti, che detengono beni e rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale.
Molto importante è il ruolo ricoperto da un altro organismo statale, la Cassa depositi e prestiti (Cdp), a cui è affidato il compito di rafforzare la struttura produttiva nazionale, anche favorendo il processo di centralizzazione dei capitali.
L’amministratore della Cdp, Fabrizio Palermo, dichiara: “Proprio la creazione di campioni nazionali è il nostro obiettivo. In Italia scarseggiano e purtroppo tendono a ridursi sempre di più. Il Paese, al contrario ne ha bisogno sempre di più. Cdp si sta impegnando a fondo”[7]. Infatti, Cdp ha lanciato Webuild, il polo delle costruzioni intorno a Salini-Impregilo, in cui sono entrati Cdp e Banca Intesa San Paolo. In questi ultimi giorni, inoltre, la Cdp ha favorito la nascita di un altro campione nazionale di respiro europeo, attraverso la fusione di Sia, controlla da Cdp, e Nexi, due leader mondiali nei pagamenti elettronici, settore che ha registrato una accelerazione con la pandemia del Covid-19. Il nuovo gruppo sarà tra i primi 10 gruppi per capitalizzazione sul mercato italiano. Il maggiore azionista sarà proprio Cdp con il 25%, seguito da Mercury, che riunisce tre fondi di investimento, con il 23% e da Banca Intesa San Paolo con il 7%. Il nuovo gruppo sarà un partner tecnologico di Borsa italiana, fornendo a MTS (la piattaforma di proprietà della Borsa in cui si scambiano i titoli di stato italiani) e a Monte titoli (il deposito centrale dei titoli italiani) servizi per il trading e il post trading. Questa integrazione tra Sia-Nexi e Borsa italiana non è un caso, visto che si prevede che Cdp rileverà, insieme a Euronext (una alleanza di varie borse europee) e a Banca Intesa San Paolo, anche Borsa Italiana, che è in predicato di essere venduta da London Stock Exchange Group. Fra l’altro, Cdp ha lanciato il fondo nazionale innovazione, che ha come missione lo sviluppo del venture capital (capitale di rischio investito in nuove società operanti in settori ad alto tasso di sviluppo), con particolare attenzione a quello impegnato nel fintech, cioè la fornitura di servizi e prodotti finanziari attraverso le tecnologie più avanzate.
Note:
In sintesi, si può dire che la crisi del Covid-19 sta accelerando una serie di tendenze che in qualche modo si stavano affacciando nello scenario economico mondiale e che si imperniano in un ruolo più massiccio dello Stato a sostegno del capitale privato nazionale.
[1] Giorgio Santilli, “L’Europa superi il pregiudizio contro gli investimenti pubblici”, Il Sole 24ore, 4 ottobre 2020
[2] Marx, Il capitale, vol. I, cap.24, La cosiddetta accumulazione originaria
[3] G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, p.35
[4] Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi dell’Unione Europea, 22 giugno 2020
[5] Nicoletta Picchio, “Bonomi Il sole 24ore, 4 ottobre 2020
[6] Luisa Leone, “Nel Recovery priorità ai privati”, Milano Finanza, 2 ottobre 2020
[7] Fabio Tamburini, “Palermo: <>, Il Sole24ore, 6 ottobre 2020
Fonte
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