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03/10/2021

Slayer - 2001 - God Hates Us All

Ciccio Russo: Adoro God Hates Us All ma ritengo che goda di una fama sproporzionata ai suoi effettivi pregi, grossomodo nella stessa misura in cui Diabolus In Musica viene spesso screditato in modo ingeneroso. Parte del merito è di Disciple, un brano d’apertura talmente clamoroso che quasi consente al resto del disco di campare di rendita. Gli altri picchi veri non sono poi molti. New Faith, dove il pur cattolicissimo Araya sembra sul serio posseduto da Satana. Bloodline, scritta per la colonna sonora di Dracula 2000, la cosa più vicina a un singolo che gli Slayer abbiano mai scritto. E la micidiale chiusura affidata a Payback, che recupera l’allucinante parossismo di una Dittohead. Il resto funziona benissimo, per carità, ma vive più di lampi estemporanei (il sinistro crescendo di Seven Faces, che richiama i momenti più psicotici di Divine Intervention) che di un’ispirazione davvero ritrovata rispetto all’ingiustamente vituperato predecessore. La differenza la fa Matt Hyde che, con il passo di lato di Rick Rubin qua solo produttore esecutivo, impone un suono frenetico e hardcoreggiante che tiene ben presente quanto fatto su Undisputed Attitude e dona più coerenza ai flirt col nu metal.

Va poi considerato il contesto storico. All’epoca di Diabolus in Musica il metal era ancora preda di una colossale sbronza di innovazione e ogni mese sembrava dover nascere un nuovo genere. Gli Slayer, che già avevano incorporato alcuni elementi delle nuove tendenze, fecero quindi la figura dei vecchi che rincorrevano i giovani col fiatone nel tentativo di restare al passo. Quando uscì God Hates Us All la situazione si era già ribaltata. Due settimane prima gli Slipknot avevano pubblicato Iowa, un disco duro da digerire, prolisso e noioso, per certi versi ammirevole nella sua anticommercialità, con il quale coloro che avrebbero dovuto diventare i nuovi re mancarono in modo clamoroso l’appuntamento con la storia e l’intero movimento nu metal dimostrò quanto corto avesse il respiro. God Hates Us All vinse la sfida tra antico e moderno su tutta la linea e sullo stesso terreno. Fu però in quel momento che il metal smise di potersi permettere vere ambizioni mainstream, iniziò a esaurire la spinta creativa e si incamminò verso la dimensione di circoletto sterile e autoreferenziale che è in parte oggi. Da questo punto di vista, fu un 11 settembre anche per la musica che amiamo.

Stefano Mazza: God Hates Us All è un disco intenso, veloce, pesante, perentorio, insomma è un disco dei migliori Slayer di sempre, tanto da aver segnato un nuovo punto di riferimento per il metal del XXI secolo: è una fila di canzoni che scorrono senza respiro e senza tregua per chi ascolta. La violenza sonora che emerge è data da diversi fattori: a livello compositivo, dall’uso esperto della atonalità, in cui gli Slayer sono sempre stati maestri sia nell’armonia che negli assoli; a livello vocale, Tom Araya praticamente non canta, ma grida e declama, tanto che in alcuni brani fa quasi un rap (esempio: Threshold); a livello di produzione, da un’incisione rumorosa, ma comunque precisa e sempre riconoscibile. Tutto questo contribuisce a rendere God Hates Us All il capolavoro di metallo duro e purissimo, è il Reign in Blood del 2000. E poi, c’è Disciple, che è una canzone che è andata oltre il disco, che poteva anche essere pubblicata da sola e da vent’anni è uno di quegli inni immortali che risuonano nella testa di ogni metallaro, al momento giusto. A proposito di momento giusto, God hates us all uscì proprio martedì 11 settembre 2001.

Griffar: A mio parere l’ultimo album degli Slayer che valga la pena comprare, e sia ben chiaro che io per questi quattro ceffi ho sempre avuto una venerazione smodata. Reign in Blood è in cima alla mia lista dei thrash metal album di sempre, giusto per dire. Sono stati la prima band che ho visto dal vivo (Milano, 1990). Quando è morto Hanneman non faccio alcun mistero di essermi messo a piangere. Una parte della mia vita se n’era andata, poche palle.

Viene insultato e vilipeso dalla critica con regolarità e tenacia stupefacenti, ma questo album vomita odio fin dal titolo fino alla fine di tutti i suoi 43 minuti scarsi di durata. Di solito gli si imputa il fatto di avere troppe contaminazioni nu metal al suo interno, anche se, per coerenza, molti di questi detrattori dovrebbero ammettere che sono stati i gruppi nu metal ad essere influenzati dagli Slayer e non viceversa. Non potevano rifare Divine Intervention perché nessuno glielo avrebbe perdonato, ma Tom Araya canta in God Hates Us All preciso preciso a come ha fatto nel suo predecessore, anch’esso criticatissimo all’uscita anche se poi è stato rivalutato in modo praticamente unanime. Qui Hanneman e King tirano giù riff di puro impatto, come in molte delle canzoni di Divine Intervention, e Bostaph non fa rimpiangere Lombardo, anche se i pezzi sono più rocciosi che sparati a mille.

Nei brani di God Hates Us All sento tantissimo gli Slayer che hanno composto Divine Intervention, ma con brani più incattiviti: non necessariamente velocizzati, proprio incattiviti, come solo un gruppo della ferocia degli Slayer avrebbe potuto fare dopo il non riuscitissimo Diabolus in Musica. È un disco che proclama al mondo intero: “Ehi, siamo tornati, siamo gli Slayer e spacchiamo culi. E lo facciamo da molto tempo prima di voi. Cercate di non dimenticarvelo”. Persino la intro Darkness of Christ mette voglia di mordere il primo malcapitato che ti passa accanto e staccargli una mano. Così, in amicizia. In fin dei conti lo odiavi, no? Ed è uno pseudo-brano da un minuto e mezzo. I primi quattro brani veri Disciple, God Send Death, New Faith e Cast Down sono il manifesto dell’odio messo in musica. Uno in fila all’altro, non ascoltateveli in macchina nel traffico o in una coda in autostrada perché poi finite sui giornali. War Zone e Payback, tra gli altri, regalano a noi Slayer-maniaci perle che da parte loro non abbiamo più ascoltato, non a questi livelli. Sacramenti, quanta cattiveria! Del resto Dio ci odia tutti, e non perde occasione di ribadircelo, tra l’altro. Obbligatorio.

Marco Belardi: Compie vent’anni uno dei dischi più rumorosi della storia, un boato, un’esplosione. È tutto fuorché un disco nel senso stretto del termine, God Hates Us All. È una di quelle esperienze da fare in un’unica soluzione, senza interruzioni, coi volumi al rialzo ben sapendo che quei quattro sadici di Araya, Hanneman, King e Bostaph, l’album, l’avevano mixato in modo tale che nuocesse gravemente alla salute, se riprodotto a volumi ai quali noi tutti ci s’era abituati. God Hates Us All fa un casino della madonna e lo fa tre anni oltre i timori su Diabolus in Musica. Anticipato da Stain of Mind, l’album del 1998 generò un mezzo flop, e, in più di un occasione, si fece rivalutare in là col tempo. Era calcolato, oscuro, eccessivamente controllato. Mancava di furia cieca anche dove poteva farne sfoggio, come in PointGod Hates us All al contrario è completamente fuori controllo, tanto che riconosco gli Slayer ricchi di ogni loro peculiarità fin qui, e non un attimo più tardi. L’evoluzione degli Slayer muore con God Hates Us All, la creatività, la voglia, muoiono pure quelle. Coloro che affermarono che gli Slayer – dal 1994 in poi – fossero scivolati nella cosiddette fase hardcore, sorrisero beffardi all’uscita di God Hates Us All o ebbero ragione con un certo ritardo.

Il disco è squisitamente permeato d’una ferocia hardcore riconoscibile in ogni urlo di Araya, fischio, deflagrazione. Paul Bostaph caccia fuori la sua miglior performance di sempre dopo quella di Divine Intervention, lasciato libero di rullare e rullare ancora dopo l’ordinata performance di tre anni prima. Il difetto di God Hates Us All, il motivo per cui l’ho sensibilmente rivalutato al ribasso, restituendo piuttosto aggiuntivo valore a Diabolus in Musica, è che ha troppe canzoni e troppi filler. Letale fino ad Exile, e inattaccabile persino negli episodi più moderni (Cast Down e Threshold, che groove e che ingresso di batteria per quest’ultima), ci presenta poi l’oscura Seven Faces sulla scia di certe cose presenti in Diabolus in Musica, per poi sparare un singolo (Bloodline, che all’epoca fece incazzare diversi di noi, ma è irresistibile) e infine crollare. Segue un terzetto di qualità infima, prima che Payback concluda l’opera con velocità e furore e un riff un po’ troppo debitore nei confronti di Angel of DeathDisciple la miglior canzone degli Slayer dal 1991 in poi, travolgente in ogni sua fase. Sebbene le foto promozionali dell’epoca, in occhiali scuri che definiremmo war metal, tradissero un fisiologico invecchiamento, in God Hates Us All percepii gli Slayer come giovani per un’ultimissima volta per poi godermeli al Tattoo the Planet in forma smagliante, in ovvio ritardo per i recenti fatti relativi alle Torri Gemelle.

L’incessante urlo “USA” ad Araya a mezzo d’un pubblico che gli Stati Uniti li aveva da una parte un po’ invidiati, dall’altra odiati senza mezzi termini; la bandiera lanciata ad Araya e aperta da un commosso frontman; i parastinchi con le croci rovesciate. Non dimenticherò mai niente di quella serata, dell’attesa per questo emblematico disco di rottura o di rinascita, e del momento in cui lo estrassi dal blasfemissimo e lucente, bianco digipack. Che cazzo di tempi.


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