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11/02/2022

Genova: le condanne agli antifascisti fanno riflettere

Le sentenze di primo grado del processo intentato nei confronti di antifascisti e antifasciste genovesi per i fatti legati alla contestazione del comizio elettorale di CasaPound, svoltosi il 23 maggio del 2019, sono indice di un “clima” complessivo di torsione autoritaria.

Un clima pericoloso se si comminano più di una cinquantina di anni di carcere per una manifestazione in cui gli unici danni materiali, ossia la frantumazione della vetrina di una famosa pasticceria, sono stati provocati dalle forze dell’ordine; e dove i soli a farsi male sono stati i manifestanti, insieme al reporter genovese di “La Repubblica”, “confuso” per un facinoroso e per questo pestato furiosamente dalla celere.

È stato uno tra i processi politici più importanti svoltosi a Genova dal dopoguerra ad oggi, sia per numero di imputati che per le pene.

Le condanne più alte – addirittura i quattro anni, in qualche caso – contrastano alquanto con i 40 giorni dati in primo grado agli agenti implicati nel pestaggio del giornalista di cui sopra durante la manifestazione.

Condanne che contrastano anche con quelle estremamente lievi emesse nei confronti dei neofascisti in città per numerosi episodi di aggressione – almeno tre – ed con il trattamento “di favore” riservato appunto ai camerati.

Colpisce che, tranne per una manciata di imputati di questo secondo “troncone” del processo – 4 su 47 – tutti gli antifascisti siano stati condannati sposando in pieno le tesi dell’accusa, senza che le due tipologie di “attenuanti” chieste dai legali siano state prese minimamente in considerazione dai magistrati, i quali in alcuni casi hanno dato pene più consistenti di quelle chieste dal PM.

Il primo troncone invece si era concluso con l’assoluzione di 5 imputati per “travisamento” e la condanna per uno “colpevole” di aver trasportato dei “tubi di Geberit” (plastica, per essere espliciti).

Il sostituto procuratore aveva chiesto per tutti i 47 imputati del filone principale pene da 6 mesi ad 1 anno e 9 mesi di reclusione, di fatto una media superiore all’anno di reclusione confermata per chi è stato poi condannato.

Ora si aspettano le motivazioni della sentenza, cui i legali faranno naturalmente ricorso. Ma è chiaro che tale giudizio, per questo processo-monstre a tappe forzate, durato appena alcuni mesi, pesa come un macigno, crea un precedente e costringe ad una riflessione complessiva.

La campagna di solidarietà – lanciata con un appello che aveva raccolto ampie adesioni – la raccolta di fondi per le spese processuali, ed il lavoro di contro-informazione sui rapporti tra la galassia neofascista e le forze politiche al governo della città, hanno accompagnato il processo insieme ad alcuni momenti importanti di mobilitazione che l’avevano preceduto.

Un lavoro a cui la dirigenza locale della CGIL così come dell’ANPI sono rimaste “sorde”, senza che in questi mesi ci sia stata una presa di posizione anche blanda – tranne alcune singole e notevoli eccezioni al loro interno – a differenza di altri corpi intermedi della sinistra, come l’ARCI che si è espressa solidarizzando.

Ennesima controprova del fatto che per la dirigenza di CGIL e ANPI – tra l’altro presente il giorno della mobilitazione – l’ “antifascismo” è una questione agitata strumentalmente solo quando fa comodo.

Un atteggiamento che potremmo definire “omertoso” e sostanzialmente simile a quello delle maggiori testate giornalistiche locali, come La Repubblica ed Il Secolo, che non si sono minimamente interessate del processo, ed anzi hanno “snobbato” le conferenze stampa fatte all’inizio e alla fine dell’iter giudiziario.

Questa “congiura del silenzio” pesa come un macigno sia sulla già risicata credibilità del giornalismo locale – tranne lodevoli eccezioni – orientato a “filtrare” la cronaca ad uso e consumo degli interessi della proprietà editoriale, e dà la cifra del deficit di cultura “garantista” della presunta “sinistra”.

Un’importante presa di posizione congiunta a sostegno degli imputati è invece recentemente arrivata da parte di tutte le forze della sinistra radicale locale, tra cui Potere al Popolo, che si era già più volte espressa attraverso i suoi portavoce ed il coordinamento nazionale.

Una questione appare centrale.

C’è un “combinato disposto” che agisce direttamente sul conflitto sociale per cui all’azione delle forze dell’ordine in piazza, si affianca il lavorio delle procure e poi il giudizio della magistratura, sempre meno “indipendente” nella sua facoltà di giudizio.

È una vera e propria gabbia di cui bisogna essere consci e che occorre scardinare affinché l’ingombrante arsenale repressivo non annichilisca il conflitto sociale che inizia a manifestare timidi, ma importanti, segni di ripresa, a cominciare dal movimento degli studenti fino a parti non trascurabili del sindacalismo combattivo.

La proposta di amnistia per i reati politici e sociali torna ad essere di pressante attualità.

Così come lo è l’esigenza di una riflessione ad ampio raggio su come affrontare i livelli di repressione in Italia. Da tempo, infatti, le forme della contro-rivoluzione preventiva nei confronti di ogni sussulto in grado di far saltare la “pace sociale” ed il clima di “Unità Nazionale” che il governo Draghi persegue a tutti i costi ostacolano l’affermazione dei bisogni della collettività.

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