Un anno fa moriva Vitaliano Trevisan ed è stata davvero un grande perdita per chi gli era vicino, per tutta la letteratura e anche per tutti quelli che vogliono capire questi ultimi decenni. I suoi libri sembrano attraversare un mondo che meraviglioso non è davvero ma risplendono come piccole luci che possono illuminare quello che siamo stati, quello che siamo e quello che potremmo essere.
“Sì pensavo, il mondo è davvero meraviglioso, siamo noi che suoniamo male, abbiamo sempre suonato male e suoniamo sempre peggio, più passa il tempo peggio suoniamo e senza rendercene conto facciamo delle nostre vite degli spaventosi assoli fuori tempo, ognuno per conto suo, credendo di suonare insieme agli altri suoniamo sempre e solo da soli...” (Vitaliano Trevisan – Un mondo meraviglioso)
In questo articolo ci interessa in particolar modo “Works”, pubblicato nel 2016 e ristampato nel 2022 da Einaudi con un inedito, “Dove tutto ebbe inizio” che appare come un vero e proprio testamento letterario.
Questa però non è una recensione ma semplicemente una ripresa di alcuni dei mille temi presenti nell’opera che possono servire a capire meglio gli anni da dove veniamo, da dove tutto appunto ebbe inizio e dove stiamo, purtroppo, inesorabilmente andando.
Gli anni '80
A partire dagli anni '80, quando inizia la vita lavorativa dell’autore, il mondo del lavoro subisce una profonda ristrutturazione con chiusure selvagge e ricollocazione di fabbriche e spazi lavorativi, mobilità sociale e trasformazione antropologica: il posto fisso, andare in pensione facilmente e senza mai cambiare lavoro, la villetta, comprarsi più del minimo indispensabile per vivere, non solo l’auto, la moto, la lavatrice, la tv ma molto altro ancora; tutto finito, almeno per molti: così iniziano i lavoretti, i grandi magazzini e i grandi capannoni industriali che dovevano essere costruiti per forza, i mobilifici, le cucine componibili, gli impiegati tutto fare, designer, architetti mancati, franchising, lauree inutili, stipendi e straordinari pagati in parte in nero, se va bene, e in lontananza quella pianura fredda e nebbiosa del Nord Est dove invidia, rancore e odio sociale cominciavano a crescere in maniera invisibile ma costante fino ad arrivare a quella degradata situazione economica e culturale imperante nell’Italia di oggi. E per chi rimane fuori dal gioco e viene messo in mobilità le cose cominciano a diventare difficili, quasi una guerra continua per non scomparire dal mondo reale e reagire a questo stato di stagnazione: “Ma così è la mobilità, come una pozza d’acqua stagnante fuori dal fiume che gli scorre vicino: tutto in essa sembra fermo; ma se saremo noi a fermarci, se saremo capaci di restare fermi abbastanza a lungo per riuscire a esserci, allora, noi, immobili, tutto intorno a noi prenderà vita”.
L’insieme sociale
Le cose non vengono mai da sole, non si può capire le mutazioni del mondo del lavoro senza inserire altri piani sociali, tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80, il Thatcherismo, la società che non esiste, l’eroina e la droga in generale, il sesso bombardato ovunque, la prostituzione d’esportazione che invade stazioni, periferie e statali, le tv commerciali, le discoteche di migliaia di persone che si respirano addosso, psicofarmaci prescritti ogni secondo e tanta, tanta ansia e depressione. Trevisan inserisce queste linee sociali nel suo racconto e le miscela in maniera naturale e profonda con i suoi lavoretti, le sue relazioni e le sue fobie.
Nella trasformazione sociale e umana in atto emerge, nella narrazione dell’autore, una domanda fondamentale di un insegnante d’inglese ai suoi allievi: perché lavori?
Pochi hanno risposto per guadagnarsi da vivere e molti invece per realizzare sé stessi. Ma può mai essere così? Perché rispondono in questo modo?
“L’alone di eticità che ha sempre pervaso il concetto di lavoro e che, dopo tutti questi anni di sconfitte, degradi, licenziamenti e morti all’interno del mondo lavorativo, continua a pressarci e a condizionare il dibattito pubblico del giornalismo attuale, degli “insaporitori" al soldo del potere, che hanno fatto fuori il lavoro e la dignità a esso legata, con la loro negazione delle classi sociali, anzi il superamento e da bravi comunicatori gli esaltatori di sapidità non dicono mai nulla direttamente”.
Dove vanno gli operai?
Trevisan descrive così i nuovi giovani operai: “si rifiutavano di indossare le scarpe antinfortunistica perché facevano schifo esteticamente, si facevano un paio di lampade a settimana, si indebitavano per comprarsi una Golf Tdi del cazzo, passavano il fine settimana tra discoteche e After-hours, spesso impasticcati, la cui grande maggioranza votava a destra...". Bisognava capire per tempo che consumismo e spettacolo, moda e corpi, immagine e video stavano condizionando, in maniera pervasiva, l’immaginario collettivo e l’intero orizzonte di senso e ci stavano dando la buonanotte in largo anticipo rispetto allo scenario di oggi, così devastato e incrinato in termini di lotta di classe politica e di sogni rivoluzionari.
“Se si vive tra figli di puttana, bisognava diventare figli di puttana”... Quasi la zona grigia di Primo Levi, i capetti, le spie, mi faccio i cazzi miei, il tengo famiglia, è soltanto un lavoro: alla fine del gioco “questi vincono sempre e ovunque. Il gioco è truccato: è possibile vincere solo se non si gioca: ma se non si gioca è impossibile vincere”. Questi sono gli anni del riflusso infinito, rassegnazione, amarezza, ansia, depressione, continuare a credere nel lavoro che non c’è, accettare quel futuro che non è più il futuro di una volta; anni che ci stiamo portando dietro come macigni pesanti e indecifrabili.
Luoghi e residui
“La crescita delle città e degli assi di comunicazione induce una crescita del numero dei residui” (Gilles Clement – Manifesto del terzo paesaggio)
Il lavoro, gli appalti pubblici e quelli privati, le grandi periferie del Nord Est: “bisogna ammettere che in questo nostro Paese, corrotto sopra tutti gli altri, è spesso la disonestà diffusa, specie in ambito pubblico a generare lavoro”. In questo modo sono stati prodotti capannoni industriali inutilizzati, opere pubbliche mai terminate, spazi erosi a natura e cittadini, cementificazione e desertificazione di interi territori, un’onda di cemento e di asfalto che è stato impossibile controllare. “La pressione dell’urbanizzazione selvaggia si avverte altrettanto fisicamente di quella atmosferica. L’erosione è costante e inesorabile” come l’Incompiuta del quarto paesaggio di “Works”, una struttura pubblica, una basilica rimasta a metà, dove i giochi di luce e gli alberi risultano come inquadrati dai riflettori. “Basterebbe così poco per farne qualcosa, così poco! Ma ormai l’Incompiuta resta un residuo, l’ennesimo, che mantiene comunque un’aurea di sacralità”.
Dove tutto ebbe inizio
Come possiamo scrivere ancora? E come scrivere ancora di lavoro?
Negli ultimi decenni il “novecentesco flusso di coscienza è stato sostituito da quell’insopportabile, insostenibile, illeggibile flusso di comunicazione, oltretutto interiore. Comunicare se stessi a se stessi, cioè vendersi e comprarsi da sé”.
Tutto diventa strategia di comunicazione, marketing, marchio di fabbrica, merce ibrida, all’interno di un insieme sociale e culturale infernale dove fake news, giornali da strapazzo, editoria a pezzi, scuola flagellata e università aziendalista, prive di tutto quello che può far crescere, maturare, essere insieme, senza contare le sale da concerti, i teatri e l’associazionismo di base in chiara difficoltà. In questo contesto è radicalmente cambiato il rapporto con il territorio. Tutto risulta vuoto, di giorno e di notte. Tutto il tempo che prima si passava in strada o in cortile “è controllato e organizzato in modo tale per cui il territorio è solo uno spazio vuoto da attraversare, che non ha perciò necessità di essere interpretato. I luoghi di ritrovo sono ormai spazi vuoti, non vissuti e quindi anonimi”. Trevisan scrive di aver l’impressione di vivere in un immenso canile lasciato a sé stesso, dove le fabbriche dismesse e tutto quello che si sono trascinate dietro hanno lasciato un vuoto non solo economico ma anche sociale, politico e culturale. Così anche il suo stesso paese si svuota progressivamente di senso.
In questo modo diventa quasi inutile scrivere ancora di lavoro e di politica quando i concetti di “produttività, meritocrazia, eccellenza, capacità di gestione non tornano affatto, tornano invece le parole, dette e ridette nell’odierna narrazione, che è narrazione soprattutto industriale o meglio economica, la cui pervasività è tale da aver ormai dilatato e allungato la sua ombra sulla totalità della narrazione, che non a caso è sempre più comunicazione di una schiera di insaporitori che si sono attribuiti il compito di vendere e di comunicare questa narrazione”. Rimane sempre il lavoro ma rimane astratto, rimangono gli operai ma rimangono senza definizione o progetto politico, restano i numeri, soprattutto di chi è morto sul lavoro.
Eppure siamo ancora direttamente e indirettamente dipendenti dal lavoro, come tossici alla ricerca di qualcosa che manca ogni mattina.
Non ci mancano certo le fabbriche chiuse e non pensiamo davvero che possano diventare tutte dei centri culturali, ma nemmeno gli ennesimi centri commerciali. Trevisan suggerisce che forse dovremmo abbandonarle a sé stesse e lasciarle diventare delle foreste selvagge.
In questo modo, “la nostra parte di periferia diffusa potrà contare su un polmone verde e i suoi abitanti potranno visitare le rovine della fabbrica e riflettere così sulla nostra propria storia, sul concetto di lavoro da cui tutto ebbe inizio, sulla nostra identità e tutte le altre cazzate politico culturali che dovrei dire per chiudere bene il discorso”.
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