In Parlamento procede l’iter che potrebbe portare all’istituzione del 4 Novembre come festa nazionale. Una simile celebrazione rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto al processo di normalizzazione della guerra e di marginalizzazione della cultura della pace che quotidianamente osserviamo nel mondo educativo e nella società.
Ci sgomenta la particolare attenzione rivolta alle istituzioni scolastiche invitate anche in questa giornata a “sensibilizzare gli studenti sul ruolo quotidiano che le Forze armate svolgono”. Si tratta di una ennesima narrazione falsa ed edulcorata che tace sulla violenza e sulle distruzioni della guerra e fa leva su quegli interventi – in occasione, per esempio, di calamità naturali – che in realtà potrebbero essere svolti da un altrettanto valido servizio civile. Un tentativo di far accettare supinamente alle nuove generazioni l’inevitabilità delle guerre eludendo ogni forma di riflessione critica sul tema.
Si profila quindi un 4 Novembre che mira a portare dentro le scuole una forte ventata di nazionalismo, attraverso la retorica del compimento dell’unità nazionale, e di militarismo facendo ricorso alla retorica del sacrificio: “si intende ricordare, in special modo, tutti coloro che, anche giovanissimi molto giovani, hanno sacrificato il bene supremo della vita per un ideale di Patria e di attaccamento al dovere: valori immutati nel tempo, per i militari di allora e quelli di oggi”.
Noi, proprio perché abbiamo il massimo rispetto per chi ha perso la vita nel corso del primo conflitto mondiale, pensiamo che la riflessione sul 4 Novembre debba indagare i fatti storici sottraendoli alla retorica militarista. Il nostro obiettivo è antitetico a quello del Governo: noi vogliamo “gettare” finalmente la guerra fuori dalla storia.
Va innanzitutto ricordato che la Prima guerra mondiale fu per il nostro Paese una guerra di aggressione. Fu infatti l’Italia a dichiarare guerra all’Austria, dopo aver sottoscritto il Patto di Londra, un accordo con il quale Francia, Gran Bretagna e Russia assicuravano all’Italia, in caso di vittoria, l’espansione dei propri confini anche in territori in cui la popolazione italiana era in netta minoranza. Territori nei quali pochi anni dopo avvenne l’italianizzazione forzata ai danni di lingue e tradizioni autoctone.
Altre rassicurazioni rivolte all’Italia dalle allora potenze mondiali riguardavano una parte dell’Albania, tutte le isole del Dodecanneso (peraltro, già occupate), il riconoscimento in Libia “di tutti quei diritti e quelle prerogative (…) finora riservate al Sultano in virtù del trattato di Losanna” e, infine, “un’estensione dei possedimenti italiani in Eritrea, Somalia e Libia nelle aree coloniali confinanti con le colonie francesi e britanniche”.
È di tutta evidenza che non si trattava tanto di completare il percorso risorgimentale verso l’unità nazionale, intriso anch’esso di massacri di popolazioni del Sud inermi e di false promesse di riforme sociali, quanto invece di riaffermare il carattere imperialistico di un ‘Italia che rivendicava il diritto all’occupazione e allo sfruttamento economico di altri Paesi, né più né meno di altre potenze coloniali europee.
Contro questa narrazione a senso unico è fondamentale ricordare la diffusa opposizione di tanti soldati verso i comandi che sfociò in diversi episodi di diserzione e renitenza alla leva con conseguenti condanne nei tribunali militari e decimazioni al fronte: circa 870mila denunciati, 350mila processi celebrati, 170mila condanne eseguite.
La ferocia dei comandi militari, le decimazioni, le condizioni bestiali in cui i militari italiani si trovarono in trincea sono tutti elementi, ampiamente riconosciuti dalla storiografia, che devono di necessità entrare in una riflessione didattica attorno alla Prima guerra mondiale.
Un conflitto che Papa Benedetto XV definì prima “un’orrenda carneficina” che disonora l’Europa e successivamente una “inutile strage”.
Ci sono dunque fondati motivi per evitare una ricostruzione storica tanto acritica quanto appiattita sulla propaganda militarista odierna, o ancor peggio retorica e bellicista, di questo tragico periodo storico. Soprattutto oggi, in un mondo ancora attraversato da numerosi conflitti, e non solo in Ucraina, è necessario difendere e diffondere la cultura della pace per contribuire a realizzare il fine politico e storico della “pace perpetua” per l’intera umanità, così come prescritto nella nostra Costituzione.
Nel contesto attuale, le celebrazioni del 4 Novembre, Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate, diventano, perciò, l’occasione per esaltare non solo il passato bellicista, ma il presente sostegno alla guerra.
Così scriveva Lorenzo Milani: “Era nel ‘22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l’esercito non la difese. Così la Patria andò in mano a un p ugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e, riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo”.
Non intendiamo, a cent’anni di distanza da quei tragici eventi, annacquare la storia e la storiografia nell’esaltazione acritica delle idee di patria e del dovere dentro un sistema di disvalori in cui il sacrificio della propria vita e l’annientamento del nemico vanno a braccetto con le malsane idee di vittoria e gloria perpetua. La guerra, qualsiasi guerra, è solo morte e distruzione. La guerra non ammette vincitori.
Il processo di militarizzazione delle nostre scuole, già molto avanzato, cerca un appiglio nella storia passata attraverso l’esaltazione del 4 Novembre proprio nel momento in cui all’orizzonte si profila il terribile spettro di una guerra totale.
In questo senso ci preme anche ricordare che in Italia il servizio di leva obbligatorio è attualmente sospeso dalla legge 23 agosto 2004 n. 226, ma all’occorrenza potrebbe essere ripristinato. L’articolo 1929 del Codice dell’ordinamento militare prevede infatti che la leva obbligatoria possa essere ripristinata solo se “il personale volontario in servizio è insufficiente e non è possibile colmare le vacanze di organico, in funzione delle predisposizioni di mobilitazione, mediante il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni”. Spetta ai Comuni, ogni anno, procedere alla formazione delle liste di leva che contengono i nominativi di tutti i cittadini maschi da 17 a 45 anni.
Poiché l’attuale governo sta rispolverando il cosiddetto progetto della mini naja (40 giorni di servizio militare volontario), va rilanciata fra le giovani generazioni l’obiezione di coscienza coerentemente con chi, oggi, appoggia la diserzione russa e ucraina.
Per tutte queste ragioni, e per molte altre osservazioni che potrebbero essere aggiunte, l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università propone per il prossimo 4 novembre una giornata di mobilitazione da declinare nelle forme che le realtà territoriali riterranno opportune, individuando luoghi e percorsi che possano contribuire a rimettere in discussione la “voglia di guerra” che attraversa le classi dirigenti, e non solo loro, del nostro Paese.
Facciamo appello in particolare a tutte le persone che operano nell’ambito della formazione, ma non solo a loro, per la costruzione di una giornata di mobilitazione atta a promuovere la cultura della pace per opporsi alla crescente militarizzazione di ogni spazio sociale.
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