Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

01/11/2023

Silenzio stampa sulla peste suina negli allevamenti padani

Il 19 ottobre Greenpeace ha lanciato un allarme: la peste suina (PSA) è arrivata negli allevamenti della Pianura Padana e in poche settimane sono stati abbattuti circa 40.000 suini che si aggiungono ai cinghiali morti a causa della stessa malattia in questi mesi!

La prima diagnosi della malattia è stata fatta il 7 gennaio 2022 sulla carcassa di un cinghiale, nelle montagne tra Piemonte e Liguria e da allora la diffusione della malattia è sembrata inarrestabile fino ad arrivare negli allevamenti intensivi.

Non possiamo escludere del tutto che qualche giornale ne abbia dato notizia, ma intanto noi non ne abbiamo trovate né sulla stampa né nei notiziari televisivi e la cosa è preoccupante perché gli allevamenti intensivi sono dei veri e propri focolai di virus e serbatoi di materiale inquinante, oltre ad essere luoghi di tortura per gli animali, e un’allerta delle istituzioni locali e nazionali – ove mai si occupassero realmente del “bene comune” salute – dovrebbe essere un obbligo.

Nelle gabbie degli allevamenti non ci sono solo esemplari in “normali” condizioni fisiche ma anche animali con ferite ulcerose, sporchi, zoppicanti, morenti; vederli è uno spettacolo rivoltante. Triturazione di pulcini (si, avete capito bene!), conigli in due, tre per gabbia e impossibilitati a muoversi, scrofe che partoriscono in gabbie dove non è possibile nemmeno distendersi.

Uno spettacolo che fa ancora più rabbia quando vediamo la pubblicità nostrana che ci mostra bovini che ascoltano sonate di Beethoven e muggiscono felici mentre fanno la doccia.

Già noti ed accertati come fonte di inquinamento dell’aria e del suolo, gli allevamenti intensivi hanno un tasso standard di mortalità degli animali intorno al 20% (stime OIE) nonostante le pesanti somministrazioni di antibiotici e le vaccinazioni.

Date queste condizioni, raramente si eseguono accertamenti per verificare le cause di morte e questo finisce per nascondere l’eventualità di morte per peste suina che, pertanto, resta latente fino a che non raggiunge una certa dimensione che ne fa maturare il sospetto ed avviare gli accertamenti.

Le maggiori concentrazioni di allevamenti intensivi si trovano in Pianura Padana: solo in Piemonte e Lombardia si allevano più di cinque milioni di suini e se il virus PSA supera la barriera degli allevamenti, la sua diffusione assume velocità e dimensioni enormi con una mortalità intorno all’80%.

Lo smaltimento dei cadaveri animali si somma all’alta concentrazione di ammoniaca nell’aria, all’alta quantità di batteri che aggrediscono le deiezioni degli animali, all’azoto e fosforo in quantità tali da inquinare pesantemente le falde acquifere: un bilancio devastante!

Se esaminiamo il modo di produzione degli allevamenti intensivi, troviamo tutti i canoni di conduzione dell’industria capitalistica.

Mortalità accettata come se si trattasse di uno scarto di produzione di pezzi difettosi alla lavorazione; economie di scala che consentono una riduzione dei costi di approvvigionamento dei mangimi; distribuzione in serie dell’alimentazione; “lavorazione” in serie del materiale “carne”, dall’uccisione alla prima macellazione come un qualsiasi semilavorato; personale operaio salariato sottoposto a tempi e ritmi come nell’assemblaggio di un qualsiasi macchinario dell’industria metalmeccanica.

La morte di un animale, che nell’allevamento domestico viene considerata una sciagura, qui è accettata come una normale perdita, come uno sfrido di lavorazione, come rischio d’impresa. Questa non è agricoltura, è capitalismo!

Ed il danno totale alla salute umana non viene considerato: l’uomo è un semplice consumatore che fa parte del ciclo del profitto.

L’abbassamento del prezzo – dovuto al sistema di produzione – la comodità e rapidità della preparazione hanno fatto della carne un cibo fast food ma anche un cibo spazzatura (una delle denunce più documentate è il libro di Eric Schlosser, Fast Food Nation. Il lato oscuro del cheeseburger, Ed. Tropea, 2002). Ormoni ed antibiotici somministrati agli animali (ma ormai estesi a tutti gli altri alimenti) vengono sempre più associati all’obesità, alle disfunzioni ormonali, ai disturbi cardiocircolatori.

In tutto questo non possiamo non considerare le idiozie della sovranità alimentare sventolata dal nostro governo come potente innovazione, come salto delle mentalità. Al livello di stupidità della propaganda del regime Meloni&parenti si associa il silenzio totale, la protezione delle italiche maialate – mai termine fu più calzante – che disinvoltamente ci porteranno nuove epidemie il cui costo ricadrà per intero su chi non ha le risorse e le condizioni di vita per potersi nutrire nella più semplice e salutare maniera.

Non deve passare in secondo piano – neppure su questi temi – la lotta contro il governo in carica, il nostro nemico interno. Né deve passare sotto silenzio l’operato dell’associazione a delinquere che siede nel Parlamento mandata al governo dall’altra banditesca associazione confindustriale dei padroni, grandi, medi e piccoli.

Nello stesso tempo questa battaglia deve essere considerata e condotta all’interno della più generale lotta per l’ambiente: l’ammoniaca rilasciata dagli allevamenti intensivi si combina nell’aria con ossidi di zolfo e di azoto e forma il particolato fine, quelle polveri sottili, quello smog che avvelena i polmoni e si aggiunge a quanto prodotto dal traffico automobilistico.

Chi pensa e agisce, anche con le migliori intenzioni, solo su aspetti particolari della “questione” ambientale non rende un buon servizio alla causa.

Ogni particolare ci porta costantemente al carattere generale ed universale del problema. Tornando al consumo di carne, sappiamo che il record è detenuto da Usa e Australia, ma sappiamo che la forbice col sud del mondo si va chiudendo.

Il rapporto Ocse-Fao del 5 luglio 2021 stimava già allora una crescita del 14% del consumo globale di carne proprio nei paesi cosiddetti in via di sviluppo. Il caso Cina è emblematico per essere diventato non solo il primo produttore mondiale di carne suina, ma anche per un incremento del consumo interno che porta quel paese a coprire un terzo dell’aumento complessivo di quel 14% di cui si parlava.

Molti problemi si aprono e tutti a scala mondiale: l’incremento dell’erosione degli ecosistemi, dell’inquinamento climatico ed ambientale, la qualità di vita degli animali, la qualità del lavoro dei proletari addetti alla macellazione costretti a lavorare in condizioni brutali, in un ambiente lurido ed insano, maleodorante, obbligati a stare per ore con gli stivali e le tute gommate insozzate di sangue tra gli scarti di macellazione.

Altrettanto importante – è arduo fare graduatorie – è il consumo di suolo e l’abbattimento delle foreste per fare spazio al “materiale” da nutrizione, ai foraggi. Continuando così, presto non ci sarà più terra da camminare, aria da respirare, cielo da guardare.

Nessuno di noi disdegna snobisticamente l’azione dei comitati locali, di interventi puntuali, di proposte particolari. Non mettiamo in campo il solito rimando alla rivoluzione mondiale caro ai principisti che eludono le necessità della lotta “qui e ora”; ma pensiamo che non c’è concretezza senza il collegamento stretto di qualsiasi proposta particolare al carattere generale della contraddizione, al suo carattere sistemico.

Non possiamo accettare false “soluzioni” all’inquinamento dell’aria che contemplino un modo di vivere con tute, caschi respiratori, e bombole di ossigeno sulle spalle.

Il riferimento non è esagerato perché purtroppo, per esempio, tra gli stessi che ammettono il riscaldamento globale c’è l’attitudine a pensare che la soluzione consista nel costruire sistemi di protezione, ombreggiamenti ed espedienti di adattamento.

Mentre tra coloro che ammettono il graduale innalzamento del livello del mare, c’è un’analoga attitudine a proporre l’arretramento delle costruzioni ed il loro innalzamento a mo’ di palafitte.

Tutte queste ed analoghe proposte non solo non denunciano le cause finendo per oscurarle, non solo rappresentano forme di adattamento al disastro ambientale in corso senza che si prospetti una rimozione delle cause. Per di più spesso finiscono per dar credito a “soluzioni” che aggravano nel tempo il problema che vorrebbero risolvere.

L’auto elettrica è un esempio lampante di questo modo di affrontare l’inquinamento da traffico urbano la cui trattazione richiederebbe molto spazio e tempo ma che già comincia a farsi spazio in numerosi studi per il suo bilancio, per la sua “impronta” anti-ecologica: non mancheremo di trattarne.

Per ora concludiamo col richiamo a considerare ogni lotta, ogni iniziativa come parte di un unico problema e come risultato del modo di produzione capitalistico. Su questo principio chiamiamo all’innalzamento del livello di coscienza, all’unità dei movimenti, alla moltiplicazione delle iniziative, alla loro maggiore radicalità – a cominciare dalla denuncia della diffusione della peste suina negli allevamenti padani che le istituzioni stanno finora cercando di insabbiare.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento