La proposta di rendere obbligatorio all’università l’insegnamento delle discipline in lingua inglese fu giustamente definita, a suo tempo, un atto di servilismo da Claudio Magris, uno dei pochi esponenti lucidi e sensibili di un mondo della cultura, qual è quello italiano, che sembra aver ormai rinunciato, in larga parte, ad esercitare una funzione, non dico di orientamento ma anche solo di vigilanza, nei confronti dell’opinione pubblica nazionale.
La proposta era l’esatto corrispettivo, in campo linguistico e culturale, della crescente alienazione di sovranità nazionale, della subordinazione economica e della tendenziale vanificazione dell’indipendenza politica, che segnano questa fase infelice della storia del Bel Paese.
Così, la condizione della nostra lingua di fronte all’avanzata di quel bulldozer della globalizzazione linguistica che è il “basic english” fa venire in mente, per analogia, la tragica sorte di quello sventurato popolano che, nel romanzo «La pelle» di Curzio Malaparte, viene travolto e schiacciato da un carro armato americano, mentre festeggia l’arrivo delle truppe alleate in una città dell’Italia centro-meridionale.
Una sorte che sembra replicarsi anche per la nostra stessa lingua, specie in un paese che, a tutti i livelli (ivi compreso quello governativo), ha battuto ogni primato di infingardaggine, oltre che di servilismo, adottando espressioni, acronimi e termini tratti di peso dalla lingua inglese e trasferiti pari pari nella nostra.
Basti pensare che, per designare l’“intelligenza artificiale” si è fatto ricorso alla stessa sigla di due lettere usata nei paesi dell’area anglosassone, cioè AI (“Artificial Intelligence”), ignorando l’esempio di altri paesi, come la Francia e la Spagna, che usano correttamente la sigla, anch’essa di due lettere, conforme alle lingue dell’area neolatina, cioè IA, laddove questo malcostume vale per una miriade di altre locuzioni prelevate dall’inglese e trapiantate in italiano (si pensi al “Jobs Act” renziano, brutale ma coerente trasposizione in chiave ‘western’ di quella che nella nostra lingua sarebbe una “legge sul lavoro”).
Ma come si spiega la progressiva colonizzazione linguistica, culturale e antropologica, che è stata progressivamente attuata nel nostro paese, così come in altri paesi non anglosassoni dell’Occidente?
A distanza di ottant’anni dal cosiddetto “discorso-manifesto di Harvard”, in cui Winston Churchill (in occasione della laurea ‘honoris causa’) spiegò, durante la seconda guerra mondiale, i piani volti all’affermazione di un imperialismo “per via linguistica”, ossia basato sulla capillare diffusione dell’inglese, non vi possono essere più dubbi sul carattere strategico di quel progetto e sulle sue conseguenze per quanto riguarda la nostra nazione: il genocidio dell’italiano.
Non è infatti esagerato affermare che, sin dal 1943, americani e inglesi puntarono alla dominazione linguistica, più che all’antica e screditata pratica dell’occupazione coloniale. Ma diamo la parola allo stesso Churchill. Proprio mentre si avvia alla conclusione del suo discorso, egli si compiace di menzionare il grande Otto von Bismarck.
Secondo il “Cancelliere di ferro” tedesco, il fattore più potente nella società umana, verso la fine del XIX secolo, fu il fatto che i popoli britannici e americani parlassero la stessa lingua. Da qui il commento del politico inglese, secondo il quale il dono di una lingua comune costituisce un’eredità inestimabile.
Il discorso di Churchill prosegue segnalando la proposta, inoltrata al governo britannico, di costituire un comitato di ministri per studiare e riferire sull’‘inglese basic’ (acronimo che equivale a ‘britannico americano scientifico internazionale commerciale’): «Eccovi il piano, composto da un totale di circa 650 nomi e 200 verbi o altre parti del discorso – non più, comunque, di quello che può essere scritto su un lato di un singolo foglio di carta».
Una volta presentato il nuovo strumento di colonizzazione, descritto come “un potente fertilizzante e il fiume dell’eterna giovinezza”, Churchill così conclude: «Questi piani offrono guadagni ben migliori che portando via le terre o le province agli altri popoli, o schiacciandoli con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono gli imperi della mente».
E proprio di questi “imperi della mente” siamo oggi noi tutti gli schiavi consenzienti. Prova ne sia che diverse università italiane, prima fra tutte il Politecnico di Milano, sia pure fra contrasti e riserve, stanno svolgendo i loro corsi in inglese.
Veniamo ora ai nostri giorni. Polemizzando a suo tempo con quella genìa di neo-barbari, da lui ben definiti come “talebani dell’inglese”, che avrebbero voluto estromettere di forza l’italiano dall’uso delle università e sostituirlo con la lingua inglese nei relativi corsi di laurea, il professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, massima istituzione del nostro paese in campo linguistico, dopo aver plaudito alle sentenze della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato sulla obbligatorietà dell’italiano come lingua di insegnamento nell’università, ebbe a ricordare molto opportunamente l’esempio dell’Accademia di Architettura di Mendrisio.
Si tratta di un esempio che dimostra come l’italiano svolga, per l’appunto, una funzione di grande utilità in un’ottica internazionale. Marazzini citava infatti il caso estremamente istruttivo di Fulvio Irace, professore ordinario di Storia dell’architettura proprio nel Politecnico di Milano.
Irace, uno dei professori che accettarono di passare all’inglese nel Politecnico, dove insegnava, in un articolo sulla pagina della “Repubblica” spiegava che a Milano faceva lezione in inglese, ma all’Accademia di Architettura di Mendrisio, in Svizzera (centro di eccellenza rinomato a livello internazionale), gli veniva espressamente richiesto, come accade tuttora, di tenere in italiano i corsi rivolti a un pubblico internazionale.
Ovviamente i talebani dell’inglese hanno ignorato questo esempio molto significativo, dal quale si evince che l’italiano sta di casa meglio in Svizzera che in Italia.
Del resto, in Svizzera è lingua nazionale, in Italia no, poiché, come è noto, la stessa Costituzione non sancisce che esso sia la lingua nazionale della Repubblica: è già tanto se lo si accetta come lingua ufficiale.
È questo un autentico paradosso italiano, che si spiega con la campagna di ‘snazionalizzazione’ del nostro Paese posta in opera nel secondo dopoguerra in funzione antifascista.
Una campagna che oggi, facendo leva su un piano generalizzato di formazione linguistica degli immigrati, deve invertire la sua direzione e tendere, senza farsi condizionare da complessi di colpa fuori luogo o da nazionalismi di stampo esclusivistico, a preservare la diversità linguistica, in quanto bene essenziale dell’umanità, dall’avanzata del rullo compressore omologante di una globalizzazione imperialistica che parla, e mira ad imporre come lingua veicolare, unicamente il ‘basic english’.
Occorre invece pensare ad un contro-progetto di rilancio e di rafforzamento della lingua italiana, poiché solo se sapremo mantenere e sviluppare la nostra specifica e prestigiosa identità di cultura nazionale (identità che in un corretto e generalizzato uso della lingua ha il suo principale strumento) potremo contribuire, non da gregari o da satelliti ma da protagonisti e su una base di effettiva parità, alla costruzione di una cultura veramente universale, affrancata da qualsiasi forma di imperialismo culturale e linguistico.
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