Anche un cretino patentato si accorgerebbe che, se aumentano l’occupazione (+456mila posti in un anno) e le ore lavorate (+1,1%), ma non il prodotto finale (o comunque non nella stessa misura) significa che quei posto di lavoro sono “lavoretti”. Magari anche a tempo indeterminato, ma non troppo “produttivi”.
Il mistero è tale, appunto, solo per i cretini o i mentitori di professione (il governo e l’intero arco parlamentare). Se tutto “lo sviluppo” avviene in settori ad alta intensità di lavoro, ma con “strumenti di lavoro” pressoché inesistenti, il risultato non può che essere questo.
Fuori di discorsi generici: se il 13% del Pil viene dal turismo, e continua a crescere, è evidente che lì la “produttività totale dei fattori produttivi” non può crescere più di tanto. Camerieri, autisti, cuochi, operatori delle pulizie, ecc, puoi anche farli lavorare 20 ore al giorno, ma la produttività oraria non cresce. E figuriamoci i salari.
Al contrario, in una fabbrica, se “l’imprenditore” investe comprando macchinari più moderni, nella stessa unità di tempo produce molto di più. Ma naturalmente diminuisce il numero degli occupati perché quelle macchine richiedono assai meno braccia e gambe per funzionare.
È la fotografia impietosa degli “imprenditori” italici, avidi di profitto ma col braccino corto sugli investimenti e, soprattutto, con nessun “gusto per il rischio”. Meglio il turismo e la ristorazione, insomma, dove con pochi soldi si prova a mungere la vacca dei visitatori di passaggio (finché dura...), dove gli incassi sono immediati e si verifica velocemente se vale la pena di continuare o smettere, piuttosto che dedicarsi ai capannoni da riempire di macchine e operai, con prodotti che non sai se avranno successo o meno (la “competizione” è bella da dire in tv, ma difficile da fare), e soprattutto con profitti che arriveranno – forse – dopo un tempo comunque lungo.
Ma questo è il “modello di paese” che è stato lasciato crescere sopprimendo l’industria pubblica (perché gli industriali, qui, si sono sempre ben guardati dal “rischiare”, tranne qualche testa fina) con privatizzazioni tutte – senza eccezioni – fallimentari in termini di produzione, profitti e occupazione.
Perché solo questo “il privato” sa effettivamente “fare meglio”.
In Francia – certo non un “paese socialista” o guidato da pericolosi estremisti – si sta lavorando alla fusione tra Stellantis (Peugeot più Citroen, più Fiat, Chrysler, Jeep, ecc.) con Renault. In entrambe le multinazionali dell’automobile lo stato francese ha una partecipazione rilevante e dunque spinge per avere un colosso unico, sotto il proprio occhio vigile, in grado di provare a reggere la sfida con Volkswagen, Toyota e Ford. Per non dire dei colossi cinesi che stanno per sommergere il mercato europeo.
L’italica Fiat, nutrita per decenni con regali pubblici senza contropartita, è semplicemente andata via. Bye bye, deficienti, e grazie di tutto...
Ora la situazione è chiarissima, in primo luogo nella prospettiva.
Di produrre qui, con “forze autoctone”, qualcosa da proporre al mondo non se ne parla quasi più. Al massimo hanno successo (ma sempre meno) i “contoterzisti” che lavorano su parti destinate ad essere assemblate dalle industrie tedesche. Nel ciclo dell’auto, per esempio, possiamo proporre solo... i freni (Brembo, probabilmente i migliori al mondo ma, insomma, sempre freni sono, mica automobili...).
E così in qualsiasi altro settore. Nell’informatica avevamo avuto dei pionieri di successo (Olivetti), ma il tocco di Debenedetti è stato fatale anche in quel caso. Sparita dopo il breve successo di fatturato dovuto alla massiccia vendita di computer già fuori mercato all’amministrazione pubblica (la ricerca, costosa ma fondamentale in quel campo, era stata tagliata per prima...).
Se qualcuno ancora si può arricchire facendo dell’Italia la Florida d’Europa, il paese in generale – in termini di Pil, ricchezza distribuibile, salari, ecc. – ci rimette. Ma ai nostri tanti padroncini dal braccino corto, retorica nazionalista a parte, che gliene frega?
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