Per fortuna che ci sono i militari a mantenere i piedi per terra... Non siamo improvvisamente impazziti, semplicemente prendiamo atto del fatto che il “realismo politico” – sul piano geostrategico – è in questo momento storico incarnato soprattutto da chi conosce le materie fondamentali e quindi sa badare al sodo anziché alle chiacchiere.
Volodimir Zelenskij è uscito dalla Casa Bianca senza Tomahawk, e quindi il mondo può tirare un sospiro di sollievo. A prescindere infatti da simpatie o antipatie per i vari protagonisti in campo (Usa, Unione Europea, Ucraina, Russia) era da sempre chiaro che l’eventuale fornitura di questi missili a Kiev avrebbe rappresentato un’escalation irreversibile nella guerra in Ucraina.
Per motivi banalmente “tecnici”, inaggirabili politicamente, anche se allegramente ignorati dai dirigenti europei e la masnada vociante dei giornalistucoli al loro seguito.
Vediamo questi motivi.
Primo. I Tomahawk possono trasportare sia testate di esplosivo convenzionale, sia una carica nucleare. Cosa ci sia dentro può saperlo solo chi lo lancia, e quindi l’avversario che se lo vede arrivare addosso è obbligato a pensare che sia l’ipotesi peggiore – una bomba atomica – e quindi a reagire di conseguenza (tirando a sua volta qualche atomica sul nemico). Se aspettasse di vedere come finisce rischierebbe di esser finito e non poter neanche reagire. Ma se reagisce utilizzando l’arma finale sarebbe anche la fine per tutti, perché a quel punto ci sarebbe uno scambio di colpi definitivo. Durata: 45 minuti, più o meno, e ciao civiltà umana.
Secondo. I Tomahawk possono essere lanciati da navi da guerra attrezzate per farlo, oppure da bombardieri specializzati. L’Ucraina non ha nessuna delle due cose. Esiste anche la possibilità teorica di farli partire da terra, ma i lanciatori sono pochi e tutti basati negli Stati Uniti.
Infine. Lancio, controllo del missile in volo, assistenza satellitare, ecc., dipendono da un personale militare specializzato che ovviamente può essere solo statunitense (non ci si può addestrare su sistemi che non si possiedono).
In sintesi: se gli Usa concedessero dei Tomahawk a Kiev sarebbe una dichiarazione di guerra alla Russia, direttamente con armi dual use (convenzionale e nucleare).
A Donald Trump i generali del Pentagono devono aver spiegato ancora meglio il problema, convincendolo a lasciar cadere la richiesta di Kiev perché non esiste possibilità di vittoria in una guerra atomica. E quindi “grazie ai generali” possiamo continuare a respirare, anche se non troppo tranquillamente.
Il resoconto ufficiale dell’incontro è quasi comico (del resto sia Trump che Zelenskij sono uomini di spettacolo), con il primo a spiegare che l’incontro è stato «molto interessante e cordiale, ma gli ho detto, come ho caldamente suggerito al presidente Putin, che è ora di fermare le uccisioni e raggiungere un accordo! ... Dovrebbero fermarsi dove sono, che entrambi cantino vittoria, che sia la Storia a decidere!».
E Zelensky a dire di essere d’accordo con Trump, anche se va via senza niente. Non può del resto far altro, se non appellarsi agli idioti di Bruxelles.
La prossima scadenza rilevante è a questo punto il vertice di Budapest tra Usa e Russia, ma anche qui c’è da ragionare bene.
Intanto per la scelta della sede – l’Ungheria di Orbàn, membro scapestrato sia della UE che della Nato – che mette in chiaro la scarsa considerazione in cui è caduta “l’Europa”. Il mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale obbligherebbe Budapest ad arrestare Putin, ma non avendolo fatto neanche con Netanyahu il problema non si pone. E Orbàn lo ha detto chiaramente.
In pratica il vertice si fa in Europa anche per dimostrare che la UE non conta nulla. Se ne lamentano ovviamente gli “europeisti” – uno per tutti, Paolo Valentino sul Corriere, che si spinge a rimpiangere che le testate nucleari sovietiche siano finite tutte alla Russia, svuotando i silos in Ucraina – ormai sbalestrati tra il dover riconoscere in Trump il proprio leader di fatto e il desiderio di proseguire con la strategia bideniana che ci ha portato sull’orlo del baratro.
E sta qui il motivo della preoccupazione che coltiviamo. Come avvenuto con l’ondata di “droni russi” – messa in piedi da paesi baltici, Polonia e qualche altro “volenteroso” per promuovere il piano di riarmo europeo e persino il delirante “muro di droni” immaginato da von der Leyen – ci si deve purtroppo aspettare nelle prossime settimane un’analoga ondata di allarmi e provocazioni, fino ad operazioni “falsa bandiera”, miranti a rendere più difficile un qualsiasi eventuale accordo tra Washington e Mosca.
Come scrive peraltro Zoltan Koskovic, un analista magiaro del Centro per i diritti fondamentali: “Zelensky non ha ricevuto nulla. Ciò che accadrà ora è che lui e la coalizione Schilling (i volenterosi, ndr) cercheranno di fare di tutto per interrompere il vertice di pace di Budapest. Aspettatevi un’escalation. Aspettatevi provocazioni brutali. Aspettatevi anche attacchi terroristici. Aspettatevi attacchi all’oleodotto Druzhba. Zelensky è di nuovo disperato”.
Con questa gente abbiamo a che fare. Purtroppo.
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