di Michele Paris
La recente accusa lanciata dagli Stati Uniti e dai loro principali
alleati europei al regime di Bashar al-Assad per avere impiegato armi
chimiche contro i “ribelli” siriani è stata messa ulteriormente in
dubbio questa settimana in seguito alla pubblicazione dei risultati di
un’indagine sul campo condotta dal governo russo. L’ambasciatore di
Mosca all’ONU, Vitaly Churkin, ha infatti affermato che, in occasione di
un attacco avvenuto quasi quattro mesi fa, a fare uso di una testata
equipaggiata con sostanze chimiche non sono state le forze armate di
Damasco ma un gruppo dell’opposizione sostenuta dall’Occidente.
L’episodio
in questione risale al 19 marzo scorso, quando un missile definito
“Bashair-3” con una carica chimica ha colpito la località di Khan
al-Assal, nel nord della Siria. In quell’occasione, dagli ambienti
dell’opposizione siriana si era gridato all’uso di armi chimiche da
parte del regime, anche se più di una perplessità era subito emersa,
soprattutto perché la città colpita era sotto il controllo del governo.
Secondo
l’ambasciatore Churkin, “i risultati delle analisi indicano chiaramente
che l’ordigno utilizzato a Khan al-Assal conteneva sarin e che esso non
è stato realizzato in una fabbrica di armi”, bensì artigianalmente. Il
missile, inoltre, “non conteneva stabilizzatori chimici della sostanza
tossica” e non corrisponde perciò a nessun armamento facente parte
dell’arsenale a disposizione del regime.
Il lavoro per la
realizzazione della testata, secondo la versione russa, era iniziato a
febbraio e sarebbe opera del gruppo armato dell’opposizione Bashair
al-Nasr, una brigata che ha stretti legami con il cosiddetto Libero
Esercito della Siria, indicato da Washington e dall’Occidente come il
destinatario delle forniture di equipaggiamenti militari approvate nelle
scorse settimane.
A dare credibilità a queste conclusioni ci
sarebbero le modalità con cui le indagini sono state svolte, visto che
gli esperti russi hanno potuto indagare e raccogliere campioni
direttamente nella località di Khan al-Assal dopo avere ricevuto
l’autorizzazione dal governo siriano. Al contrario, le precedenti
“indagini” annunciate da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia erano
basate su resoconti degli stessi “ribelli” e su interviste condotte con
testimoni in paesi come Turchia o Libano, mentre i campioni reperiti
erano passati attraverso numerosi intermediari.
Inoltre,
le conclusioni del Cremlino - presentate martedì alle Nazioni Unite -
coincidono con il giudizio espresso all’inizio del mese di maggio
dall’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, la
quale, in qualità di membro della speciale commissione ONU d’inchiesta
sulla Siria, aveva sostenuto che a utilizzare armi chimiche in maniera
limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime
Nonostante
le possibili perplessità da parte di alcuni circa l’imparzialità delle
conclusioni della Russia, visto il suo continuo legame con il regime di
Assad, non c’è ragione per considerare più credibili le indagini
eseguite con metodi scientificamente discutibili dall’Occidente rispetto
a quest’ultima effettuata sul campo dagli esperti di Mosca.
Soprattutto,
nonostante i risultati delle analisi di Washington, Londra e Parigi
fossero stati contestati da autorevoli esperti di armi chimiche e, per
stessa ammissione di questi governi, non risultassero definitivi nemmeno
dal loro punto di vista nell’assegnare la responsabilità dell’accaduto
al regime, essi sono stati nondimeno utilizzati per giustificare un
aumento del loro coinvolgimento nel conflitto per rimuovere Assad.
Il
mese scorso, infatti, il presidente Obama aveva annunciato
pubblicamente la propria decisione di dare il via libera alla fornitura
di armi americane ai “ribelli” in Siria proprio in seguito al presunto
superamento da parte di Assad della “linea rossa” fissata dalla Casa
Bianca nell’estate del 2012 con il ricorso ad armi chimiche.
Le
indagini indipendenti su quanto accaduto a marzo a Khan al-Assal,
invece, risultano ancora in alto mare a causa dei disaccordi
internazionali attorno al mandato da assegnare agli ispettori delle
Nazioni Unite. Il governo di Damasco aveva anch’esso chiesto un’indagine
ONU su un attacco che causò più di 30 morti nella città situata nella
provincia settentrionale di Aleppo, ma ha finora puntato i piedi di
fronte all’insistenza occidentale di consentire agli ispettori di
indagare su altri incidenti nei quali avrebbero potuto essere usate armi
chimiche, tra cui un episodio del dicembre 2012 nella città di Homs.
I
sospetti sulle responsabilità dell’opposizione nell’uso di armi
chimiche sono poi aumentati nei giorni scorsi in seguito ad un annuncio
fatto dall’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar Ja’afari, in
concomitanza con la visita a Damasco del capo degli ispettori per le
armi chimiche delle Nazioni Unite, Ake Sellstrom. Ja’afari ha infatti
dato notizia del sequestro da parte delle autorità di governo di 281
fusti contenenti agenti chimici in mano a formazioni “ribelli”, anche se
alcuni esperti occidentali hanno sostenuto che le sostanze rinvenute
non sarebbero adatte ad un uso militare.
Una notizia simile, e
ugualmente ignorata dalla maggior parte della stampa internazionale, era
stata in ogni caso diffusa anche nel mese di giugno, quando le forze di
sicurezza turche avevano arrestato sul proprio territorio alcuni membri
del Fronte al-Nusra, uno dei principali gruppi terroristi attivi in
Siria e affiliato ad al-Qaeda, nelle cui abitazioni erano state trovate
sostanze chimiche utilizzabili a fini militari.
Oltre
ad avere probabilmente assemblato e utilizzato ordigni chimici più o
meno rudimentali per provocare la condanna internazionale del regime di
Assad e fornire l’occasione ai propri sponsor occidentali per
giustificare un maggiore coinvolgimento nel conflitto al loro fianco, i
“ribelli” siriani e, in particolare, le formazioni fondamentaliste nel
prossimo futuro potrebbero anche utilizzare queste armi letali contro
altri obiettivi, compresi quelli americani, europei o israeliani.
A
sollevare questa inquietante ipotesi sono da tempo proprio le agenzie
di intelligence di questi paesi, tra cui più recentemente quelle
britanniche. Nel corso della presentazione dell’annuale rapporto della
commissione per i Servizi Segreti e la Sicurezza del parlamento di
Londra, nella giornata di martedì l’attività di elementi estremisti in
Siria è stata indicata come “la principale minaccia terroristica per la
Gran Bretagna e i suoi alleati”.
La commissione ha espresso
preoccupazione per la sicurezza del vasto arsenale di armi chimiche in
mano al regime di Damasco e che potrebbe finire nelle mani di formazioni
integraliste con conseguenze potenzialmente “catastrofiche”.
L’allarme
sollevato dall’intelligence e dai parlamentari britannici appare del
tutto giustificato, vista la natura della maggior parte dei “ribelli”
armati che combattono in Siria. Ciò che viene puntualmente taciuto sono
però le responsabilità della creazione di una simile situazione
esplosiva nel paese mediorientale, da assegnare pressoché interamente
proprio ai governi occidentali e ai loro alleati arabi, i quali hanno
favorito la nascita e l’espansione dell’influenza di queste stesse
formazioni, utilizzate come strumenti per la rimozione del regime di
Bashar al-Assad.
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