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13/07/2013

Siria, le armi chimiche dei ribelli

di Michele Paris

La recente accusa lanciata dagli Stati Uniti e dai loro principali alleati europei al regime di Bashar al-Assad per avere impiegato armi chimiche contro i “ribelli” siriani è stata messa ulteriormente in dubbio questa settimana in seguito alla pubblicazione dei risultati di un’indagine sul campo condotta dal governo russo. L’ambasciatore di Mosca all’ONU, Vitaly Churkin, ha infatti affermato che, in occasione di un attacco avvenuto quasi quattro mesi fa, a fare uso di una testata equipaggiata con sostanze chimiche non sono state le forze armate di Damasco ma un gruppo dell’opposizione sostenuta dall’Occidente.

L’episodio in questione risale al 19 marzo scorso, quando un missile definito “Bashair-3” con una carica chimica ha colpito la località di Khan al-Assal, nel nord della Siria. In quell’occasione, dagli ambienti dell’opposizione siriana si era gridato all’uso di armi chimiche da parte del regime, anche se più di una perplessità era subito emersa, soprattutto perché la città colpita era sotto il controllo del governo.

Secondo l’ambasciatore Churkin, “i risultati delle analisi indicano chiaramente che l’ordigno utilizzato a Khan al-Assal conteneva sarin e che esso non è stato realizzato in una fabbrica di armi”, bensì artigianalmente. Il missile, inoltre, “non conteneva stabilizzatori chimici della sostanza tossica” e non corrisponde perciò a nessun armamento facente parte dell’arsenale a disposizione del regime.

Il lavoro per la realizzazione della testata, secondo la versione russa, era iniziato a febbraio e sarebbe opera del gruppo armato dell’opposizione Bashair al-Nasr, una brigata che ha stretti legami con il cosiddetto Libero Esercito della Siria, indicato da Washington e dall’Occidente come il destinatario delle forniture di equipaggiamenti militari approvate nelle scorse settimane.

A dare credibilità a queste conclusioni ci sarebbero le modalità con cui le indagini sono state svolte, visto che gli esperti russi hanno potuto indagare e raccogliere campioni direttamente nella località di Khan al-Assal dopo avere ricevuto l’autorizzazione dal governo siriano. Al contrario, le precedenti “indagini” annunciate da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia erano basate su resoconti degli stessi “ribelli” e su interviste condotte con testimoni in paesi come Turchia o Libano, mentre i campioni reperiti erano passati attraverso numerosi intermediari.

Inoltre, le conclusioni del Cremlino - presentate martedì alle Nazioni Unite - coincidono con il giudizio espresso all’inizio del mese di maggio dall’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, la quale, in qualità di membro della speciale commissione ONU d’inchiesta sulla Siria, aveva sostenuto che a utilizzare armi chimiche in maniera limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime

Nonostante le possibili perplessità da parte di alcuni circa l’imparzialità delle conclusioni della Russia, visto il suo continuo legame con il regime di Assad, non c’è ragione per considerare più credibili le indagini eseguite con metodi scientificamente discutibili dall’Occidente rispetto a quest’ultima effettuata sul campo dagli esperti di Mosca.

Soprattutto, nonostante i risultati delle analisi di Washington, Londra e Parigi fossero stati contestati da autorevoli esperti di armi chimiche e, per stessa ammissione di questi governi, non risultassero definitivi nemmeno dal loro punto di vista nell’assegnare la responsabilità dell’accaduto al regime, essi sono stati nondimeno utilizzati per giustificare un aumento del loro coinvolgimento nel conflitto per rimuovere Assad.

Il mese scorso, infatti, il presidente Obama aveva annunciato pubblicamente la propria decisione di dare il via libera alla fornitura di armi americane ai “ribelli” in Siria proprio in seguito al presunto superamento da parte di Assad della “linea rossa” fissata dalla Casa Bianca nell’estate del 2012 con il ricorso ad armi chimiche.

Le indagini indipendenti su quanto accaduto a marzo a Khan al-Assal, invece, risultano ancora in alto mare a causa dei disaccordi internazionali attorno al mandato da assegnare agli ispettori delle Nazioni Unite. Il governo di Damasco aveva anch’esso chiesto un’indagine ONU su un attacco che causò più di 30 morti nella città situata nella provincia settentrionale di Aleppo, ma ha finora puntato i piedi di fronte all’insistenza occidentale di consentire agli ispettori di indagare su altri incidenti nei quali avrebbero potuto essere usate armi chimiche, tra cui un episodio del dicembre 2012 nella città di Homs.

I sospetti sulle responsabilità dell’opposizione nell’uso di armi chimiche sono poi aumentati nei giorni scorsi in seguito ad un annuncio fatto dall’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar Ja’afari, in concomitanza con la visita a Damasco del capo degli ispettori per le armi chimiche delle Nazioni Unite, Ake Sellstrom. Ja’afari ha infatti dato notizia del sequestro da parte delle autorità di governo di 281 fusti contenenti agenti chimici in mano a formazioni “ribelli”, anche se alcuni esperti occidentali hanno sostenuto che le sostanze rinvenute non sarebbero adatte ad un uso militare.

Una notizia simile, e ugualmente ignorata dalla maggior parte della stampa internazionale, era stata in ogni caso diffusa anche nel mese di giugno, quando le forze di sicurezza turche avevano arrestato sul proprio territorio alcuni membri del Fronte al-Nusra, uno dei principali gruppi terroristi attivi in Siria e affiliato ad al-Qaeda, nelle cui abitazioni erano state trovate sostanze chimiche utilizzabili a fini militari.

Oltre ad avere probabilmente assemblato e utilizzato ordigni chimici più o meno rudimentali per provocare la condanna internazionale del regime di Assad e fornire l’occasione ai propri sponsor occidentali per giustificare un maggiore coinvolgimento nel conflitto al loro fianco, i “ribelli” siriani e, in particolare, le formazioni fondamentaliste nel prossimo futuro potrebbero anche utilizzare queste armi letali contro altri obiettivi, compresi quelli americani, europei o israeliani.

A sollevare questa inquietante ipotesi sono da tempo proprio le agenzie di intelligence di questi paesi, tra cui più recentemente quelle britanniche. Nel corso della presentazione dell’annuale rapporto della commissione per i Servizi Segreti e la Sicurezza del parlamento di Londra, nella giornata di martedì l’attività di elementi estremisti in Siria è stata indicata come “la principale minaccia terroristica per la Gran Bretagna e i suoi alleati”.

La commissione ha espresso preoccupazione per la sicurezza del vasto arsenale di armi chimiche in mano al regime di Damasco e che potrebbe finire nelle mani di formazioni integraliste con conseguenze potenzialmente “catastrofiche”.

L’allarme sollevato dall’intelligence e dai parlamentari britannici appare del tutto giustificato, vista la natura della maggior parte dei “ribelli” armati che combattono in Siria. Ciò che viene puntualmente taciuto sono però le responsabilità della creazione di una simile situazione esplosiva nel paese mediorientale, da assegnare pressoché interamente proprio ai governi occidentali e ai loro alleati arabi, i quali hanno favorito la nascita e l’espansione dell’influenza di queste stesse formazioni, utilizzate come strumenti per la rimozione del regime di Bashar al-Assad.

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