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06/10/2013

L'Oriente a stelle e strisce

di Mario Lombardo

Con il presidente Obama costretto ad annullare almeno parzialmente il suo viaggio della settimana prossima in Asia sud-orientale, altri due membri di spicco dell’amministrazione democratica di Washington sono stati inviati in questi giorni in una regione fondamentale per gli interessi americani sempre più in competizione con quelli di Pechino.
Il segretario di Stato, John Kerry, e quello alla Difesa, Chuck Hagel, hanno così siglato nella giornata di giovedì il rinnovo della partnership militare che lega il loro paese al Giappone. I termini dell’alleanza tra Washington e Tokyo erano stati rivisti per l’ultima volta nel 1997 e il nuovo accordo - ufficializzato alla presenza del ministro degli Esteri nipponico, Fumio Kishida, e di quello della Difesa, Itsunori Onodera - contiene alcune disposizioni che produrranno più di un malumore tra i vertici cinesi.

In particolare, gli Stati Uniti il prossimo anno installeranno un nuovo sistema radar di difesa missilistica presso la base aerea giapponese di Kyogamisaki, nella prefettura di Kyoto, mentre per la prima volta in assoluto verranno impiegati dei droni a scopo di “sorveglianza” in territorio nipponico. Inoltre, i due paesi si sono accordati per incrementare la cooperazione al fine di combattere le crescenti minacce informatiche e gli americani condurranno ricognizioni con velivoli di ultima generazione nelle aree marittime contese tra Tokyo e Pechino.

Quasi tutte le nuove iniziative sono state presentate come necessarie per far fronte alla presunta minaccia per il Giappone e gli interessi americani proveniente dalla Corea del Nord. In realtà, tutto ciò rientra nella cosiddetta “svolta” asiatica lanciata da qualche anno dall’amministrazione Obama, il cui scopo centrale è quello di contenere l’espansionismo cinese.

In questo quadro si colloca anche l’impulso marcatamente militarista impresso dal governo conservatore di Tokyo guidato dal primo ministro Shinzo Abe. Il tentativo di quest’ultimo di superare il carattere pacifista della Costituzione del Giappone, assegnando un ruolo più attivo alle forze armate, serve infatti alla promozione degli interessi del paese sullo scacchiere internazionale e va di pari passo con il rilancio della presenza statunitense in Estremo Oriente.

Questa evoluzione degli equilibri strategici in Asia ha già creato pericolose tensioni non solo tra la Cina da una parte e gli alleati degli Stati Uniti dall’altra (Giappone, Filippine), principalmente a causa di dispute territoriali relative ad una serie di isole rivendicate da più parti, ma anche tra i governi allineati di Washington.

Giappone e Corea del Sud si sono così scontrati più volte nei mesi scorsi, soprattutto a causa dell’eredità tossica lasciata dal periodo coloniale nipponico nella penisola di Corea ma anche, come è successo proprio questa settimana, per un’altra disputa territoriale non risolta tra Tokyo e Seoul. Queste frizioni sono viste con estrema preoccupazione a Washington, da dove l’unità degli alleati in Asia orientale viene considerata come una condizione indispensabile per la creazione di un fronte anti-cinese sufficientemente compatto.

Oltre a far riemergere vecchi dissapori tra paesi schierati sullo stesso fronte internazionale, il cosiddetto “pivot” degli Stati Uniti in Asia suscita spesso l’opposizione delle popolazioni interessate, anche perché si concretizza quasi sempre con una maggiore presenza di forze americane nel continente.

In Giappone, ad esempio, il riallineamento del governo conservatore agli interessi di Washington dopo le incertezze del gabinetto guidato dal Partito Democratico (DPJ) risulta tutt’altro che popolare, specialmente in quelle località che da decenni devono convivere con le basi militari americane, come Okinawa. Proprio qui, infatti, le proteste degli abitanti si sono moltiplicate, tanto che i due paesi hanno finito per includere nell’accordo firmato giovedì una clausola che prevede il trasferimento di 9 mila marines americani, 5 mila dei quali destinati all’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico, a spese dei contribuenti giapponesi.

In ogni caso, a dare un potente segnale della volontà degli Stati Uniti di rafforzare la propria presenza in Asia orientale avrebbe dovuto essere la trasferta di Barack Obama. In seguito alla chiusura parziale iniziata martedì degli uffici governativi americani, tuttavia, la Casa Bianca ha annunciato la cancellazione delle visite in Malaysia e nelle Filippine.

Il presidente democratico dovrebbe invece prendere parte regolarmente a due summit regionali previsti per la settimana prossima, il primo a Bali (Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico, APEC) e il secondo in Brunei (Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico, ASEAN). Con lo scontro che prosegue al Congresso tra democratici e repubblicani sul bilancio federale, anche questa seconda parte del viaggio inizialmente programmato da Obama risulta però in forte dubbio.

L’assenza di Obama rischia così di assestare un colpo molto pesante alla credibilità americana in quest’area del pianeta, dove svariati governi - a cominciare da quello filippino del presidente Benigno Aquino - si aspettavano una dichiarazione senza riserve dell’appoggio degli Stati Uniti nell’ambito delle dispute e delle tensioni esplose negli ultimi anni con la Cina.

Proprio la finalizzazione dei preparativi per la presenza di un contingente militare americano nelle Filippine - in contravvenzione con quanto previsto nella Costituzione di questo paese - doveva essere uno dei punti centrali del viaggio di Obama per promuovere la “svolta” asiatica della sua amministrazione.

Le altre questioni in agenda che verranno comunque discusse da Kerry, oltre al già concluso rinnovo della partnership militare con il Giappone, saranno almeno la promozione della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), cioè il controverso trattato di libero scambio tra alcuni paesi di Asia, Americhe e Oceania da cui sarà esclusa la Cina, e l’ennesimo tentativo di “mediare” una soluzione multilaterale delle dispute territoriali che oppongo Pechino ad alcuni paesi membri dell’ASEAN.

Nonostante le rassicurazioni degli esponenti del governo americano che le intenzioni dietro alla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama sono pacifiche, questa strategia passa principalmente attraverso un’aumentata presenza militare, come confermano, tra gli altri, l’accordo siglato lo scorso anno con l’Australia e quello già ricordato con le Filippine, ma anche, più in generale, la decisione di Washington di dispiegare entro il 2020 ben il 60 per cento delle proprie forze navali nell’area Estremo Oriente/Oceano Pacifico.

I piani degli Stati Uniti, però, come dimostra la parziale cancellazione della visita di Obama, troveranno sempre maggiori ostacoli nel prossimo futuro, specialmente di fronte alla pressoché inarrestabile avanzata di una Cina che continua a far registrare sensibili progressi nei rapporti commerciali con quasi tutti i paesi del sud-est asiatico.

Proprio mentre Obama viene costretto a Washington dallo scontro sul bilancio USA, infatti, il presidente cinese, Xi Jinping, sta preparando i summit di APEC e ASEAN con una trasferta che lo ha portato in Indonesia e in Malaysia, dove, tra l’altro, il primo ministro Najib Razak è alla ricerca di legittimazioni internazionali per rafforzare la sua posizione interna dopo la deludente prestazione elettorale della sua coalizione qualche mese fa.

In Indonesia, invece, Xi ha finalizzato una serie di accordi commerciali per il valore di oltre 30 miliardi di dollari, mentre nella giornata di giovedì ha tenuto un discorso al parlamento di Jakarta, significativamente il primo in assoluto di un leader straniero di fronte ai membri dell’assemblea legislativa di questo paese.

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