di Mario Lombardo
Con il
presidente Obama costretto ad annullare almeno parzialmente il suo
viaggio della settimana prossima in Asia sud-orientale, altri due membri
di spicco dell’amministrazione democratica di Washington sono stati
inviati in questi giorni in una regione fondamentale per gli interessi
americani sempre più in competizione con quelli di Pechino.
Il segretario di Stato, John Kerry, e quello alla Difesa, Chuck
Hagel, hanno così siglato nella giornata di giovedì il rinnovo della
partnership militare che lega il loro paese al Giappone. I termini
dell’alleanza tra Washington e Tokyo erano stati rivisti per l’ultima
volta nel 1997 e il nuovo accordo - ufficializzato alla presenza del
ministro degli Esteri nipponico, Fumio Kishida, e di quello della
Difesa, Itsunori Onodera - contiene alcune disposizioni che produrranno
più di un malumore tra i vertici cinesi.
In particolare, gli
Stati Uniti il prossimo anno installeranno un nuovo sistema radar di
difesa missilistica presso la base aerea giapponese di Kyogamisaki,
nella prefettura di Kyoto, mentre per la prima volta in assoluto
verranno impiegati dei droni a scopo di “sorveglianza” in territorio
nipponico. Inoltre, i due paesi si sono accordati per incrementare la
cooperazione al fine di combattere le crescenti minacce informatiche e
gli americani condurranno ricognizioni con velivoli di ultima
generazione nelle aree marittime contese tra Tokyo e Pechino.
Quasi
tutte le nuove iniziative sono state presentate come necessarie per far
fronte alla presunta minaccia per il Giappone e gli interessi americani
proveniente dalla Corea del Nord. In realtà, tutto ciò rientra nella
cosiddetta “svolta” asiatica lanciata da qualche anno
dall’amministrazione Obama, il cui scopo centrale è quello di contenere
l’espansionismo cinese.
In questo quadro si colloca anche
l’impulso marcatamente militarista impresso dal governo conservatore di
Tokyo guidato dal primo ministro Shinzo Abe. Il tentativo di
quest’ultimo di superare il carattere pacifista della Costituzione del
Giappone, assegnando un ruolo più attivo alle forze armate, serve
infatti alla promozione degli interessi del paese sullo scacchiere
internazionale e va di pari passo con il rilancio della presenza
statunitense in Estremo Oriente.
Questa evoluzione degli
equilibri strategici in Asia ha già creato pericolose tensioni non solo
tra la Cina da una parte e gli alleati degli Stati Uniti dall’altra
(Giappone, Filippine), principalmente a causa di dispute territoriali
relative ad una serie di isole rivendicate da più parti, ma anche tra i
governi allineati di Washington.
Giappone e Corea del Sud si sono
così scontrati più volte nei mesi scorsi, soprattutto a causa
dell’eredità tossica lasciata dal periodo coloniale nipponico nella
penisola di Corea ma anche, come è successo proprio questa settimana,
per un’altra disputa territoriale non risolta tra Tokyo e Seoul. Queste
frizioni sono viste con estrema preoccupazione a Washington, da dove
l’unità degli alleati in Asia orientale viene considerata come una
condizione indispensabile per la creazione di un fronte anti-cinese
sufficientemente compatto.
Oltre a far riemergere vecchi
dissapori tra paesi schierati sullo stesso fronte internazionale, il
cosiddetto “pivot” degli Stati Uniti in Asia suscita spesso
l’opposizione delle popolazioni interessate, anche perché si concretizza
quasi sempre con una maggiore presenza di forze americane nel
continente.
In Giappone, ad esempio, il riallineamento del
governo conservatore agli interessi di Washington dopo le incertezze del
gabinetto guidato dal Partito Democratico (DPJ) risulta tutt’altro che
popolare, specialmente in quelle località che da decenni devono
convivere con le basi militari americane, come Okinawa. Proprio qui,
infatti, le proteste degli abitanti si sono moltiplicate, tanto che i
due paesi hanno finito per includere nell’accordo firmato giovedì una
clausola che prevede il trasferimento di 9 mila marines americani, 5
mila dei quali destinati all’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico, a
spese dei contribuenti giapponesi.
In ogni caso, a dare un
potente segnale della volontà degli Stati Uniti di rafforzare la propria
presenza in Asia orientale avrebbe dovuto essere la trasferta di Barack
Obama. In seguito alla chiusura parziale iniziata martedì degli uffici
governativi americani, tuttavia, la Casa Bianca ha annunciato la
cancellazione delle visite in Malaysia e nelle Filippine.
Il
presidente democratico dovrebbe invece prendere parte regolarmente a
due summit regionali previsti per la settimana prossima, il primo a Bali
(Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico, APEC) e il secondo in
Brunei (Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico, ASEAN). Con lo
scontro che prosegue al Congresso tra democratici e repubblicani sul
bilancio federale, anche questa seconda parte del viaggio inizialmente
programmato da Obama risulta però in forte dubbio.
L’assenza di
Obama rischia così di assestare un colpo molto pesante alla credibilità
americana in quest’area del pianeta, dove svariati governi - a
cominciare da quello filippino del presidente Benigno Aquino - si
aspettavano una dichiarazione senza riserve dell’appoggio degli Stati
Uniti nell’ambito delle dispute e delle tensioni esplose negli ultimi
anni con la Cina.
Proprio la finalizzazione dei preparativi per
la presenza di un contingente militare americano nelle Filippine - in
contravvenzione con quanto previsto nella Costituzione di questo paese -
doveva essere uno dei punti centrali del viaggio di Obama per
promuovere la “svolta” asiatica della sua amministrazione.
Le
altre questioni in agenda che verranno comunque discusse da Kerry, oltre
al già concluso rinnovo della partnership militare con il Giappone,
saranno almeno la promozione della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica
(TPP), cioè il controverso trattato di libero scambio tra alcuni paesi
di Asia, Americhe e Oceania da cui sarà esclusa la Cina, e l’ennesimo
tentativo di “mediare” una soluzione multilaterale delle dispute
territoriali che oppongo Pechino ad alcuni paesi membri dell’ASEAN.
Nonostante
le rassicurazioni degli esponenti del governo americano che le
intenzioni dietro alla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama sono
pacifiche, questa strategia passa principalmente attraverso
un’aumentata presenza militare, come confermano, tra gli altri,
l’accordo siglato lo scorso anno con l’Australia e quello già ricordato
con le Filippine, ma anche, più in generale, la decisione di Washington
di dispiegare entro il 2020 ben il 60 per cento delle proprie forze
navali nell’area Estremo Oriente/Oceano Pacifico.
I
piani degli Stati Uniti, però, come dimostra la parziale cancellazione
della visita di Obama, troveranno sempre maggiori ostacoli nel prossimo
futuro, specialmente di fronte alla pressoché inarrestabile avanzata di
una Cina che continua a far registrare sensibili progressi nei rapporti
commerciali con quasi tutti i paesi del sud-est asiatico.
Proprio
mentre Obama viene costretto a Washington dallo scontro sul bilancio
USA, infatti, il presidente cinese, Xi Jinping, sta preparando i summit
di APEC e ASEAN con una trasferta che lo ha portato in Indonesia e in
Malaysia, dove, tra l’altro, il primo ministro Najib Razak è alla
ricerca di legittimazioni internazionali per rafforzare la sua posizione
interna dopo la deludente prestazione elettorale della sua coalizione
qualche mese fa.
In Indonesia, invece, Xi ha finalizzato una
serie di accordi commerciali per il valore di oltre 30 miliardi di
dollari, mentre nella giornata di giovedì ha tenuto un discorso al
parlamento di Jakarta, significativamente il primo in assoluto di un
leader straniero di fronte ai membri dell’assemblea legislativa di
questo paese.
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