Avrei voluto scrivere un pezzo conclusivo della discussione sul Pd, ma il sopraggiungere della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale mi impone di rinviare alla prossima occasione ed occuparmi ora di questa faccenda le cui implicazioni sono, forse, molto sottovalutate. Al di là della soddisfazione per l’esito della vicenda che, finalmente, chiarisce come da venti anni la legge elettorale sia in contrasto con la Costituzione (ho sempre detto che il referendum Segni-Occhetto del 1993 fu un colpo di Stato mascherato), c’è il problema di chiarire la serie di problemi costituzionali che ne derivano.
Va detto che la discussione avviene in condizioni di conoscenza assai precaria dei sistemi elettorali, anche da parte di politici e giornalisti, che dicono castronerie incredibili: a proposito, chi dice che il Porcellum è un sistema proporzionale “con correzione maggioritaria”, è un somaro patentato, che non sa che questo è un sistema maggioritario “con correzione proporzionale”, il che è molto l’opposto.
Partiamo da quello che ho appena detto sull’incostituzionalità delle leggi elettorali sin dal Mattarellum. La pronuncia della Corte Costituzionale, infatti, è originata da un ricorso contro la legge elettorale attuale, ma stabilisce dei principi generali che, ovviamente, valgono anche per altre leggi che abbiano i medesimi caratteri. Leggeremo meglio le motivazioni della sentenza, ma già da adesso giuristi come Gianluigi Pellegrino ritengono chiaramente desumibili i principi di riferimento: il rifiuto di un premio di maggioranza di entità tale da stravolgere il principio di rappresentanza e l’impossibilità per l’elettore di scegliere gli eletti.
Rilievi che possono benissimo essere fatti alla precedente legge elettorale che, anzi era anche peggiore. Il sistema uninominale maggioritario stabilisce che un partito vince il seggio in palio anche avendo un solo voto in più di ciascun altro e, pertanto, se questo dovesse accadere in tutti i collegi, un solo partito potrebbe aggiudicarsi la totalità dei seggi, anche con una quota fortemente minoritaria di voti elettorali. Oppure, può determinarsi una situazione per cui il partito con il minor numero di voti popolari ottenga la maggioranza dei seggi (come è effettivamente accaduto in alcune occasioni in Usa ed Uk).
Ovviamente, si tratta di ipotesi del tutto teoriche o con scarsissime probabilità di verificarsi, ma non impossibili; ma se si afferma un principio, occorre anche tener presenti i casi limite che possano determinarsi. Certo, il Mattarellum attenuava fortemente questo rischio, con una quota del 25% dei seggi distribuita proporzionalmente con il meccanismo dello “scorporo” dei voti già impiegati per conquistare i singoli collegi, ma resta l’ipotesi che, in caso di frammentazione dell’offerta politica, un partito possa ottenere una forte quota di seggi con una percentuale troppo modesta di voti popolari (poniamo il 54% dei seggi con il 29% dei voti popolari, che è proprio quello che è successo a febbraio, dando il via a tutto quel che ne è seguito in termini giuridico-costituzionali).
Infatti, così come l’attuale sistema maggioritario non ha impedito una conformazione dell’offerta elettorale in tre poli e mezzo (per usare la formula di Laakso e Taagepera: Centro sinistra, Centro destra, M5s ed il “mezzo” polo del centro montiano), allo stesso modo anche qualsiasi altro sistema maggioritario non potrebbe garantire che si formi quel sistema bipartitico che è il presupposto del buon funzionamento di un sistema di tipo maggioritario. Come diceva Sartori: una legge maggioritaria può contribuire in modo determinante a mantenere in vita un sistema politico bipartitico una volta che si sia formato, ma non ha la forza, da sola, di determinarlo. La conformazione del sistema politico, infatti, è solo in parte determinata dalla legge elettorale, ma è il prodotto anche di una altra serie di fattori ambientali come:
- la tradizione storica,
- la distribuzione territoriale del voto,
- la conseguente presenza più o meno accentuata di partiti locali o fortemente polarizzati con un nucleo apprezzabile di “elettorato irriducibile”,
- la presenza di linee di frattura multiple e non perfettamente sovrapponibili (ad esempio quella sinistra-destra e quella di tipo confessionale) eccetera
L’Italia è esattamente uno dei casi in cui si manifestano tanto linee di frattura multiple e non sovrapponibili, quanto la presenza di aree elettorali irriducibili che, in parte, sono confluite nella protesta del M5s. E, infatti, in nessuna elezione dal 1994 in poi si è registrata una competizione bipartitica, sia perché si è ricorsi al sistema delle coalizioni (per cui si parla di “bipolarismo” e non di “bipartitismo”), sia perché le coalizioni non sono mai state solo due e nessun contendente ha mai ottenuto il 50% dei voti popolari.
Dunque, qualsiasi sistema maggioritario, in un caso come quello italiano è condannato a scontare tassi piuttosto elevati di disrappresentatività. Pertanto anche il Mattarellum (di cui alcuni avrebbero voluto una infausta reviviscenza) presenta le criticità di un sistema maggioritario in un ambiente elettorale di formato multipolare.
Ugualmente, il Mattarellum non prevede il voto di preferenza: nella quota uninominale per definizione (essendo, appunto, un collegio in cui ciascun partito presenta un solo candidato), nella quota maggioritaria perché si trattava di liste bloccate come nel Porcellum. E, dunque, chi pensa di uscirne con la riedizione di un Mattarellum più o meno rivisitato, non capisce che sta solo mettendo le premesse per un nuovo ricorso alla Corte e per una nuova e più grave fase di delegittimazione del Parlamento.
Ci sono poi una serie di conseguenze “a ricaduta” di non trascurabile peso. In primo luogo, se è vero che è “incostituzionale la legge ma, per definizione, non lo è il Parlamento eletto con essa”, questo non vuol dire che questa sentenza non abbia un devastante impatto delegittimante sul Parlamento in carica. Come si può pensare che un Parlamento frutto di una legge dichiarata incostituzionale possa mettere mano alla riforma della Costituzione? Dunque, prima conseguenza, sciogliamo questa pagliacciata di comitato dei saggi che non ha più ragion d’essere, e fermiamo questo processo di revisione costituzionale per più versi fuori dalle norme. Ma, di questo dovrebbe prendere atto anche il Presidente della Repubblica che ha fortemente voluto l’uno e l’altro facendone lo scopo qualificante del suo mandato. Lasciamo perdere se sia possibile costituzionalmente che un Presidente si muova in questo modo, come se fosse il capo di una maggioranza parlamentare, ricordiamoci solo del fatto che più di una volta il Presidente ha dichiarato che avrebbe terminato il suo mandato nel momento in cui si fosse reso chiaro che quel processo di riforme fosse risultato impossibile. Bene: quel momento è arrivato e Napolitano ne tragga le conseguenze.
Nel frattempo, tuttavia, occorre procedere anche a nuove elezioni perché è evidente che un Parlamento delegittimato non può restare in carica più del tempo necessario ad avere una legge elettorale funzionante. Il che significa che per ora occorre solo un intervento minimo per rispettare le indicazioni della Corte: lasciare la legge Calderoli come è salvo il premio di maggioranza e introdurre un brevissimo articolo che preveda il voto di preferenza. Punto e basta. Si voti in primavera e il prossimo Parlamento provvederà ad una riforma organica.
C’è poi un’altra conseguenza che potrebbe determinarsi in base all’interpretazione degli effetti della sentenza: quando la Corte dichiara incostituzionale una norma, essa cessa di avere qualsiasi effetto, tam quam non esset. Dunque, questo Parlamento è stato formato attribuendo un premio di circa 200 seggi (alla Camera) alla coalizione vincente. Premio ora dichiarato incostituzionale. Abbiamo detto che il Parlamento, anche se frutto di una legge incostituzionale, non per questo è incostituzionale esso stesso. Però c’è un problema da risolvere: il Parlamento è “perfetto” quando l’elezione di ciascuno dei suoi membri sia stata convalidata dalla giunta per le elezioni, cosa che normalmente avviene in circa un anno, dopo che la giunta esamini caso per caso. Di solito è un atto piuttosto formale, ma… c’è un ma: nel caso Berlusconi, per poter votare sulla decadenza del Cavaliere a scrutinio palese, si è detto che non si stava votando sulla sua decadenza, ma sulla sua eleggibilità. Insomma, la giunta ha ritenuto (e l’aula ha approvato) che il principio generale, per cui è ineleggibile chi abbia avuto una condanna penale superiore a due anni, fosse operante già al momento delle elezioni. Ora, come farà la giunta per le elezioni a convalidare la regolarità dell’elezione di quei parlamentari “scattati” grazie ad un premio di maggioranza che non c’è più? Si pone il problema del se non sia necessario ricalcolare la divisione dei seggi redistribuendo i 200 seggi attribuiti con premio di maggioranza. E in questo caso, il governo Letta non avrebbe più alcuna maggioranza, neppure alla Camera. E questo ribadisce l’inopportunità (se non l’impossibilità) che questo Parlamento duri più di tanto.
Come si vede, l’esplosione di un ordigno nucleare avrebbe fatto meno danni. Ma non è colpa della Corte che non ha fatto altro che mettere a nudo il castello di illegittimità costituzionali costruito dal 1993 ad opera dei golpisti Segni, Pannella ed Occhetto.
Aldo Giannuli
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