Che Napolitano sia stato il peggiore degli 11 Presidenti della Repubblica è cosa che abbiamo già scritto, ma ora si tratta di andare un po’ oltre e giudicare i suoi comportamenti sotto un profilo strettamente giuridico dato che il M5s si appresta a chiederne la messa in stato d’accusa. Dunque, entriamo nel merito. Non c’è dubbio che Napolitano stia abusando, molto più di Cossiga, del suo potere di esternazione: non passa giorno che non inviti maggioranza parlamentare e governo a far qualcosa (approvare l’indulto, una nuova legge elettorale di cui prescrive il carattere bipolare e non proporzionale, approvare la legge che penalizza il negazionismo storico, approvare la legge di stabilità e in che tempi ed in che modi, riformare la giustizia, intervenire sulla normativa in materia di immigrazione ecc. ecc.), inoltre non si contano i “messaggi ufficiosi alla azione” sotto forma di comunicati del Quirinale o dichiarazioni stampa più o meno informali.
In particolare in materia di “canone storico”, il Presidente si sente obbligato ad emanare istruzioni in tema di strategia della tensione, di bilancio di 150 anni di unità nazionale, di antifascismo e questione del negazionismo, di storia delle relazioni internazionali della Prima Repubblica, anche se, di questa funzione pedagogica del Capo dello Stato non si rinviene traccia nel testo costituzionale. Persino i risultati elettorali sono vivacemente commentati da una autorità che, non fosse altro per il suo ruolo super partes, sarebbe meglio tacesse in proposito (“Non sento alcun botto”… ricordate?).
Questa, incontinentia exprimendi non è l’innocua manifestazione di affezione logorroica senile, ma ha una palese funzione politica. A partire dall’insediamento del governo Monti, Napolitano si è comportato esattamente come il Presidente della Repubblica francese: una sorta di super Presidente del Consiglio, con un’ unica variazione di rilievo: nel caso francese il Capo dello Stato presiede il Consiglio dei Ministri (art. 32 Costituzione della repubblica francese), qui non ci siamo ancora arrivati. Ma ci stiamo avvicinando, come dimostra il fatto che il Presidente ha preso a riunire presso di sé i capigruppo della maggioranza. Una cosa che nessun suo predecessore aveva mai fatto.
In diverse occasioni il Presidente ha esplicitamente legato la sua permanenza al Quirinale a precise condizioni quali l’approvazione delle riforme costituzionali e, di conseguenza, la permanenza in carica del Governo Letta e la sopravvivenza della legislatura almeno sino al 2015. Sin qui, per la verità, non avevamo mai visto un Presidente condizionare la sua permanenza alla sopravvivenza di un determinato governo. E questo sia perché, legando la sua sorte a quella di un governo o di una maggioranza, il Presidente cessa la sua funzione arbitrale, sia perché, l’eventuale crisi di governo minaccerebbe di trasformarsi in una crisi istituzionale senza precedenti, sommando le dimissioni del Capo dello Stato a quelle del Presidente della Repubblica. E’ vero che il Presidente del Senato assumerebbe ipso facto le funzioni di Capo dello Stato, ma, se si rendesse necessario farlo, il Presidente provvisorio avrebbe il potere di sciogliere le Camere? E non stiamo parlando di fantascienza: ad aprile il partito di maggioranza non è stato in grado di compattarsi su un nome (persino su quello del suo fondatore sono mancati 101 voti) ed, alla fine, si è dovuti ripiegare sulla rielezione dell’uscente.
E, dunque, queste continue esternazioni (sostenute dalla minaccia intermittente di una crisi istituzionale senza precedenti) hanno la funzione di dettare l’agenda al governo ed alla maggioranza parlamentare. E già questo segnala una tacita trasformazione della forma di governo attraverso l’alterazione dei rapporti funzionali fra i vari soggetti costituzionali.
Quel che è ulteriormente sottolineato dal ruolo del Capo dello Stato quale rappresentante internazionale del paese. In passato ci sono stati Presidenti che hanno perseguito di fatto indirizzi di politica internazionale diversi da quelli del governo: su questo piano, Gronchi fu sicuramente più in sintonia con l’Eni che con il governo, Saragat ebbe una sua politica iper atlantica spesso confliggente con quella dell’allora ministro degli Esteri Moro e di Cossiga potremmo dire cose analoghe. Ma con Napolitano è accaduto qualcosa di più: in particolare con il manifestarsi della crisi del nostro debito sovrano, il Presidente ha assunto una funzione di vero ed unico punto di riferimento della diplomazia internazionale (si pensi alla famosa telefonata della Merkel che, a rigore, avrebbe dovuto esser fatta all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi). Va detto, però, che nell’eccezionalità della situazione incideva in modo determinante l’assoluta impresentabilità internazionale di Berlusconi (anche io, al posto della Merkel, non avrei telefonato a Palazzo Chigi ma al Quirinale). Dunque, non tutto può essere fatto risalire alla volontà di Giorgio Napolitano, occorrendo tener presente le dinamiche oggettive in atto. Questo, tuttavia, non toglie che delle trasformazioni istituzionali si siano determinate e questo anche grazie al persistere della prassi di Napolitano anche dopo la caduta del governo Berlusconi. Anzi, con Monti, la proiezione internazionale del Capo dello Stato si è accentuata ancor più, per culminare nel viaggio a Berlino nel giorno stesso delle elezioni politiche (altro episodio senza precedenti) della cui inopportunità c’è poco da dire e dei cui contenuti, peraltro, abbiamo saputo poco o nulla.
Qui si segnala una sostanziale trasformazione del ruolo del Capo dello Stato da garante della Costituzione in garante dei trattati internazionali sottoscritti dal paese (in primis quelli relativi all’adesione all’Euro) e del suo debito pubblico. In questo senso il Presidente finisce per avere una funzione a due facce: una di rappresentanza del paese verso l’Estero (come è giusto che sia) ma l’altra di rappresentante della comunità internazionale, ed in particolare quella europea verso l’Italia. Il processo di trasformazione istituzionale diventa più chiaro se i comportamenti del Presidente vengono letti insieme all’introduzione in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio, Così come acquista un senso ancora più preciso il processo di revisione costituzionale avviato proprio su ispirazione del Presidente e con una prassi assolutamente non conforme al dettato costituzionale. Il punto non sta tanto nel merito delle riforme prospettate (abolizione del bicameralismo perfetto e riduzione dei parlamentari) che, in sé, sono misure correttive dell’architettura costituzionale assai condivisibili. La questione è essenzialmente procedurale.
Il punto è che si parla di occasionale “deroga” alle procedure di revisione previste dall’art 138, introdotta da una revisione compiuta attraverso le procedure del 138. Ma la Costituzione non prevede alcuna possibilità di deroga: si può riformare l’art 138 e, da quel momento in poi eventuali revisioni seguirebbero le nuove modalità, ma non è possibile fare una legge che dica “Per questa volta seguiamo un percorso diverso”. In una Costituzione rigida non esiste il concetto di emergenza per il quale si può derogare occasionalmente da essa.
Ma allora, perché inventarsi una procedura ad hoc così discutibile piuttosto che riformare l’art. 138? Perché la prassi adottata è semplicemente incostituzionalizzabile. Per riassorbire in Costituzione la procedura in questione, occorrerebbe modificare l’art 138 in questo modo: “Il progetto di revisione costituzionale è affidato ad un comitato di saggi scelti fuori dal Parlamento e di nomina governativa, la cui lista sia successivamente approvata dal Parlamento. A tale comitato spetta la redazione definitiva ed inemendabile della riforma da sottoporre all’approvazione delle Camere”. Neanche nella Costituzione del Burkina Faso è dato leggere una cosa del genere.
Ed ecco, allora, lo stravagante escamotage della “deroga” che, tutto sommato, ha allungato i tempi richiedendo un primo processo di revisione per poi procedere al successivo di merito.
Sarebbe bastato procedere direttamente alla revisione sui due punti in questione (bicameralismo e numero parlamentari) e la legge costituzionale sarebbe già in linea di arrivo. La cosa acquista senso dove si comprenda che il succo della questione non è nel merito delle attuali riforme ma nel metodo con cui esse vengono introdotte, e che costituisce un precedente destinato ad aprire la porta a ben altre modifiche della carta costituzionale.
A rendere la cosa ancor più prossima ad una aperta rottura costituzionale è la circostanza che vede il promotore nel Presidente della Repubblica che, avendo giurato di osservarla fedelmente, spetterebbe semmai il compito di difensore d’ufficio della Costituzione vigente ed in particolare delle sue norme di tutela.
A tutto questo occorre aggiungere che anche nell’esercizio delle sue attribuzioni sussidiarie, Napolitano ha manifestato una certa irritualità. E’ il caso del modo in cui ha usato il potere di grazia nel caso del colonnello Joseph Romano condannato per il rapimento di Abu Omar. Poco dopo il suo primo insediamento, Napolitano aveva fatto sapere che, per criteri di opportunità, non avrebbe concesso la grazia in caso di condanne troppo recenti, per evitare di far sembrare l’atto una sorta di quarto grado di giudizio. Ma dal momento della sentenza passata in giudicato a quello della Grazia a Romano erano passati meno di sei mesi. La deroga al principio generale veniva giustificata con l’opportunità di adottare un principio che si sarebbe invocato per la vicenda dei nostri marò arrestati in India. Peraltro, solo dieci giorni prima della decisione presidenziale, la grazia era stata sollecitata dal Presidente Usa Barak Obama. Non è chiaro per quale motivo l’India avrebbe dovuto far proprio un criterio di clemenza usato dall’Italia per un condannato statunitense, ma è chiaro che il Presidente intende il potere di grazia come un atto eminentemente politico e, in questo caso, di politica estera.
Una riprova all’incontrario è la vicenda Sofri: come si ricorderà, il Presidente Ciampi aveva concesso la grazia all’ex dirigente di Lotta Continua, ma l’allora Guardasigilli Castelli aveva rifiutato la controfirma. Ne era sorto un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale che aveva dato ragione al Presidente ritenendo che la controfirma ministeriale non fosse un elemento necessario per la concessione della grazia. Nel frattempo, tuttavia, Ciampi aveva terminato il settennato. E’ certamente vero che la concessione delle misure di clemenza sono un potere della persona che ricopre la carica pro tempore e non dell’istituzione in quanto tale, per cui non c’era alcun automatismo e Napolitano era libero di scegliere, ma un minimo di far play istituzionale nei confronti del suo predecessore avrebbe consigliato di dar corso alla grazia che, invece, non è stata più concessa. E’ palese che questa tacita sconfessione dell’operato di Ciampi era determinata non da criteri di clemenza, ma da valutazioni di ordine strettamente politico nelle quali non è difficile scorgere sia i problematici rapporti fra potere politico e potere giudiziario, sia le antiche ruggini fra il gruppo dirigente comunista e Sofri nelle varie stagioni della sua vita.
Anche nella nomina dei senatori a vita è palmare che si sia trattato di precise scelte politiche pensate a supporto di una particolare formula di governo. Non sono certamente in dubbio gli alti meriti, ad esempio, di Carlo Rubbia, Renzo Piano e Claudio Abbado ma che siano stati scelti tutti in una precisa area politica - come poi ha dimostrato il loro conseguente comportamento di voto - è un fatto. Ad esempio, si poteva pensare anche a Dario Fo - che è un Premio Nobel come Rubbia - ma abbiamo il sospetto che a questo proposito abbia pesato la sua vicinanza al M5s e, pertanto, il suo più che probabile voto contrario al governo Letta.
Anche nella nomina del giudice costituzionale Giuliano Amato sorge lo stesso dubbio, considerando che mai era accaduto che nella Corte entrasse un ex Presidente del Consiglio.
Dunque, l’insieme della prassi di Napolitano suggerisce l’immagine di un Capo dello Stato che persegue un preciso indirizzo politico con tutti i mezzi a sua disposizione. Ma può il Presidente della Repubblica avere un indirizzo politico? Si badi, non un indirizzo costituzionale, che rientra perfettamente nelle sue funzioni arbitrali, ma un indirizzo propriamente politico. Una prassi così debordante dei poteri presidenziali non altera i rapporti di forza fra le diverse istituzioni, causando quindi un sostanziale mutamento della forma di governo? Fu precisamente sulla base di queste considerazioni che l’allora Pds chiese la messa in stato d’accusa dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che, per la verità, si era spinto assai meno su questa strada di quanto non abbia fatto il suo attuale successore. Ma si sa che il Pd non eccede in coerenza. Una volta si sarebbe detto “opportunisti senza principi”.
Veniamo ora alla situazione attuale.
Il M5s ipotizza una messa in stato d’accusa che Forza Italia sembra voler votare. Nel plenum delle Camere riunite Fi (128 seggi complessivi) e M5s (156) dispongono di 284 seggi su 951 totali, ma potrebbero aggregare la Lega (36 seggi) e la pattuglia dei fuorusciti del M5s e forse qualche parlamentare delle forze politiche minori, sfiorando i 340 seggi. E questo senza calcolare come possa essere risolta la questione dei 148 seggi di Pd e Sel ottenuti con il premio di maggioranza. Peraltro occorre considerare che la votazione per la messa in stato d’accusa del Presidente si svolge a scrutinio segreto e le sorprese sono sempre possibili. Ma lasciamo da parte le ipotesi più lontane. Ricordiamo che Leone si dimise al semplice annuncio della richiesta di messa in stato d’accusa da parte del Pci ed anche nel caso di Cossiga non si giunse al voto per l’accavallarsi delle elezioni politiche e delle sue dimissioni. Insomma, sulla messa in stato d’accusa di un Capo dello Stato non si è mai arrivati a votare e si capisce il motivo: anche se “assolto” un Capo dello Stato difficilmente può restare al suo posto se una parte rilevante del Parlamento lo sfiducia così apertamente, perché la sua funzione arbitrale è ovviamente finita.
Vero è che si può cercare di bloccare la procedura nell’esame istruttorio, ma immaginiamo che alla fine si voti e ci siano circa 300 voti favorevoli alla messa in stato d’accusa: questo significherebbe che l’opposizione non riconosce il Capo dello Stato come arbitro super partes, mentre il suo salvataggio sarebbe dipeso dai soli voti della maggioranza, confermando quindi l’immagine del Presidente come capo di una maggioranza parlamentare. Per di più, in termini di voti popolari, Fi e M5s rappresentano grosso modo il 50% o poco più e questo è un Parlamento politicamente delegittimato dalla sentenza della Corte.
Infine, lo stesso Napolitano ha condizionato la sua permanenza in carica al buon esito della riforma costituzionale che, a questo punto, con il passaggio di Fi all’opposizione, appare del tutto improbabile, quantomeno al Senato. Sappiamo che tutto è possibile e che non è la faccia quello che manca, ma non sarebbe il caso di trarne le conseguenze prima ancora che sopraggiunga una crisi di governo che, sommandosi a quella del Quirinale, determini uno tsunami istituzionale senza precedenti?
Fonte
In breve sintesi: Napolitano un presidente golpista!
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