di Mario Lombardo
Con la
situazione nella Repubblica Centrafricana (CAR) in rapido
deterioramento, il governo francese e l’Unione Africana hanno deciso nel
fine settimana di aumentare il proprio contingente militare in uno dei
paesi più poveri dell’intero pianeta. Le violenze hanno fatto registrare
una drammatica escalation negli ultimi giorni dopo mesi di instabilità
seguita all’avanzata dei ribelli musulmani che, lo scorso mese di marzo,
avevano deposto il presidente, François Bozizé.
Operazione avvenuta con la tacita approvazione della Francia,
impegnata a portare a termine un riallineamento strategico nel
continente africano per riaffermare i propri interessi economici,
minacciati soprattutto dalla crescente influenza cinese in molte ex
colonie africane di Parigi.
Il livello di atrocità raggiunto
nella Repubblica Centrafricana è apparso in questi giorni in tutta la
sua evidenza da una serie di resoconti apparsi sui media di mezzo mondo
che hanno descritto massacri indiscriminati compiuti sia dagli
ex-ribelli ora al potere sia dai gruppi armati a maggioranza cristiana e
dalle forze fedeli al presidente in esilio.
Dopo che giovedì
scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato una
risoluzione a favore di un intervento militare più massiccio nel paese
situato nel cuore dell’Africa (MISCA, Mission Internationale de Soutien à
la Centrafrique), il presidente francese, François Hollande, al termine
di una conferenza sulla sicurezza del continente a Parigi nella
giornata di sabato, ha annunciato che il suo paese aumenterà il numero
di truppe da 1.200 a 1.600. Allo stesso modo, l’Unione Africana porterà
il numero di soldati provenienti dai paesi vicini dai 2.500 attuali a
circa 6.000.
Le forze francesi, peraltro, sembrano avere già
intensificato il proprio impegno in questo paese, con pattuglie di
soldati che stanno presidiando le strade della capitale, Bangui, e le
regioni nord-occidentali. Lo stesso Hollande ha poi affermato che la
situazione di estrema crisi richiederà un drastico anticipo delle
elezioni, inizialmente previste per il 2015 quando dovrebbe scadere il
mandato del presidente ad interim, il leader dei ribelli Michel
Djotodia.
Come ha già fatto in altri paesi africani negli ultimi
anni, la Francia sta dunque sfruttando caos e violenze anche nella
Repubblica Centrafricana per legittimare una maggiore presenza nel
continente. Tutti i precedenti interventi - in Costa d’Avorio, Mali e
Libia - così come quest’ultimo, vengono puntualmente presentati come
necessari per “salvare vite umane” o per promuovere i progressi verso la
democrazia dei vari paesi interessati, quasi sempre dotati di risorse
del sottosuolo tutt’altro che trascurabili.
Nel caso della
Repubblica Centrafricana, inoltre, alla destabilizzazione del paese ha
contribuito in maniera decisiva proprio il governo di Parigi. Dopo
l’inizio dell’offensiva dei ribelli Seleka (“Alleanza”) nel dicembre
2012, la Francia aveva favorito nel gennaio successivo la firma di un
accordo di pace in Gabon tra il presidente Bozizé e i ribelli stessi.
Bozizé aveva così acconsentito ad una serie di concessioni, nominando un
primo ministro scelto dai ribelli e accettando di non ricandidarsi alle
prossime elezioni presidenziali.
Poche settimane più tardi,
tuttavia, i ribelli avrebbero denunciato la mancata implementazione
dell’accordo da parte di un presidente che doveva sentirsi erroneamente
indispensabile per la Francia, lanciando l’attacco decisivo nella
capitale e costringendo Bozizé a riparare nel vicino Camerun. L’ingresso
dei ribelli musulmani Seleka a Bangui è avvenuto senza che le centinaia
di soldati francesi dispiegati nella Repubblica Centrafricana
muovessero un dito per l’ormai ex uomo di Parigi.
L’atteggiamento
di Parigi, assurdamente giustificato a livello ufficiale con la volontà
di non interferire nelle vicende interne di un paese sovrano, è apparso
relativamente sorprendente, visto che Bozizé si era auto-nominato
presidente nel 2003 dopo avere guidato un colpo di stato proprio con
l’appoggio francese. La Francia stessa aveva poi permesso all’ex
generale di rimanere al potere per un decennio, contribuendo a far
fallire due tentativi da parte dei ribelli di rovesciare il suo governo
nel 2006 e nel 2007.
A
rivelare indirettamente le responsabilità dietro al golpe era stato tra
l’altro lo stesso Bozizé in un’intervista rilasciata lo scorso mese di
agosto al Sunday Times sudafricano. In quell’occasione, il
deposto presidente in esilio a Parigi aveva spiegato come il suo omologo
sudafricano, Jacob Zuma, avesse mancato di implementare un accordo
siglato a Pretoria nel dicembre 2012 per garantire rinforzi militari al
leader centrafricano in caso di avanzata dei ribelli Seleka.
Bozizé,
tuttavia, non condannava il mancato intervento a suo favore di Zuma,
giustificando la decisione di quest’ultimo con le pressioni interne per
evitare un maggiore impegno del suo governo nella Repubblica
Centrafricana. Bozizé, piuttosto, puntava il dito contro il presidente
del Ciad, Idriss Déby, definito un suo “ex amico” e considerato
“personalmente responsabile” della morte di 15 soldati sudafricani
avvenuta in seguito all’ingresso dei ribelli a Bangui.
Il
contingente di “pace” inviato in Repubblica Centrafricana dal Ciad aveva
infatti consentito ai gruppi armati anti-Bozizé di marciare
indisturbati verso la capitale, mentre successivamente è stata rivelata
la protezione garantita al nuovo presidente Djotodia di alti ufficiali
con stretti legami al vicino settentrionale. Secondo quanto riportato
dalla Reuters lo scorso mese di maggio, il capo delle operazioni
militari in Repubblica Centrafricana nominato da Djotodia sarebbe
addirittura un ex componente della guardia presidenziale di Déby.
La
posizione assunta dal leader del Ciad è estremamente rivelatrice delle
decisioni prese a Parigi in relazione alla ex colonia, dal momento che
Déby è uno dei partner più importanti della Francia in Africa centrale.
Il Ciad ha ad esempio partecipato attivamente alla recente campagna
francese in Mali, ufficialmente per liberare il nord di questo paese dai
ribelli islamisti, e l’attivismo nella regione del suo presidente,
intensificatosi parallelamente alla scomparsa di Gheddafi in Libia e al
disimpegno di Sudafrica e Nigeria, rappresenta un punto di riferimento
cruciale per gli interessi francesi.
A spiegare la mutata sorte
di Bozizé da semi-fantoccio di Parigi a leader da liquidare può
contribuire soprattutto la sua apertura alla Cina e la firma di svariati
accordi economici con Pechino. Le apprensioni occidentali per questi
sviluppi erano state rivelate da svariati documenti diplomatici
pubblicati da WikiLeaks, tra cui alcuni cablo inviati a Washington nel
2009 dall’ambasciatore statunitense a Bangui. In essi non solo venivano
sottolineati gli ostacoli posti dal governo di Bozizé alle corporation
francesi attive nella Repubblica Centrafricana, come il colosso
dell’energia nucleare Areva, ma anche le relazioni sempre più difficili
tra il presidente e Parigi.
Inoltre, gli americani vedevano con
preoccupazione l’intensificata cooperazione di Bozizé con la Cina in
ambito militare, diplomatico ed economico. Una situazione resa evidente
dalla presenza all’ambasciata cinese di Bangui di circa 40 dipendenti
contro appena 4 in quella americana.
La Cina, quindi, stava
ottenendo accesso alle risorse della ex colonia francese, estremamente
ricca di uranio, oro, diamanti, ferro, legname e, potenzialmente,
petrolio, ai danni della Francia e delle altre potenze occidentali. Lo
stesso Bozizé nel dicembre 2012 affermò pubblicamente che nel suo paese
non c’era stato alcun problema - almeno per il regime - fino a quando il
petrolio era messo a disposizione delle compagnie francesi, mentre il
caos è iniziato quando lo ha offerto ai cinesi.
Gli
scrupoli “umanitari” francesi sono emersi anche in una conferenza
promossa dall’organizzazione degli industriali d’oltralpe che settimana
scorsa ha preceduto il summit sulla sicurezza in Africa. In essa il
presidente Hollande ha reso noto il lancio di un piano per raddoppiare
gli investimenti francesi nel continente nel prossimo futuro, mentre il
suo ministro delle Finanze, Pierre Moscovici, ha lamentato la mancata
percezione della nuova accesa competizione nelle ex colonie, ricordando
che qui la posizione di Parigi “non è più esclusiva né garantita”.
Nel
primo decennio del 21esimo secolo, infatti, la fetta di mercato della
Francia nell’Africa sub-sahariana è scesa da oltre il 10% a meno del 5%,
mentre quella cinese è passata da nemmeno il 2% a inizio anni Novanta
al 16% nel 2011. Non a caso, perciò, il nuovo regime degli ex ribelli
con alla guida Michel Djotodia, subito dopo la presa del potere nel mese
di marzo grazie all’assenso francese, si è affrettato ad annunciare una
revisione integrale degli accordi siglati dal regime di Bozizé con il
governo e le compagnie cinesi.
L’ennesima crisi africana, in
definitiva, dietro la retorica umanitaria servirà ancora una volta alle
potenze occidentali per aumentare la propria presenza strategica in
questo continente in un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi
della competizione internazionale per assicurarsi risorse naturali in
gran parte ancora da sfruttare.
L’impegno francese nella
Repubblica Centrafricana rientra perciò in questa dinamica e, invece di
pacificare il paese, rischia di fare esplodere ancor più le tensioni
etniche e settarie che in questi mesi hanno già fatto migliaia di morti.
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