di Fabrizio Casari
I miliziani
dello Stato Islamico dell’Iraq sono a sessanta chilometri da Baghdad, ma
non è detto che vi arriveranno. La penetrazione rapida dei miliziani di
Al Zarkiwi, reduci dalla Siria (dove ne hanno prese in abbondanza) è
stata possibile grazie al disfacimento rapido della catena operativa di
comando dell’esercito iracheno. Il disastro del governo guidato da Al
Maliki è solo uno dei guai che hanno combinato le diverse
amministrazioni statunitensi negli ultimi 11 anni in Iraq.
Se oggi i miliziani dell’Isis dispongono di un relativo consenso tra
la popolazione, è anche a causa dell’agire del governo iracheno: stolto,
arrogante, repressivo ed incapace di aprire il dialogo con i sunniti
(pure maggioranza confessionale della popolazione) Maliki rappresenta
tutto ciò contro cui normalmente le popolazioni si rivoltano; è per
questo che i suoi stessi soldati rifiutano di battersi.
Ma
Washington non può lasciare l’Iraq in mano ai miliziani provenienti da
al-Queda. E’ chiaro però che né Usa, né Francia, Gran Bretagna o
Germania sono disposte a inviare truppe. I due eserciti regolari
presenti nella zona sono dunque iraniani e turchi e, oltre a loro, sul
campo vi sono i peshmerga kurdi, giustamente però concentrati nel
mantenimento ogni giorno più difficile della regione da loro occupata.
Che
l’Isil entri a Baghdad è tutto da vedere. Non tanto perché il governo
Al Maliki sia in grado di sbarrargli la strada, quanto perché il Grande
Ayatollah Alì Sistani, massima autorità sciita in Iraq, ha invitato
“tutti coloro che possono portare un’arma ad arruolarsi per fermare i
membri dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”.
E le immagini dei giorni scorsi di giovani che correvano ad
arruolarsi erano una prima risposta all’appello della massima autorità
sciita che vede ora il conflitto interno all’Iraq come una guerra
necessaria a fermare gli appetiti sunniti sostenuti dell’egemonismo
delle monarchie del Golfo. Qatar e Arabia Saudita, infatti,
sponsorizzano rispettivamente i Fratelli musulmani e i guerriglieri
siriani, dal momento che il wahabismo è legatissimo al salafismo che
anima i jahidisti che combattono per il califfato sunnita in tutta la
regione, dalla Siria fino al Golfo passando per l’Iraq.
Ma in un
comune sentire tra le città sante di Najaf e Qom, la componente sciita
ha trovato la sua unità politica e l’Iran, considerata la patria
protettiva per ogni sciita, non potrà che confermare il suo ruolo
storico scendendo direttamente in campo. Per Teheran però, il che fare
ha dei tempi più lunghi. A ben vedere, Rohani non ha troppa fretta
nell’intervenire. Conscio che in sole 24-48 ore può debellare
completamente le milizie jiahidiste di Al-Zarkawi, è però evidente che
non sia disposto a pagare il prezzo di una guerra senza ottenere nulla
in cambio. Dunque tende sì la mano, essendo comunque anch’essa
interessata a fermare l’Isil ed il loro folle progetto di califfato, ma
non ha nessuna intenzione di tirare fuori dai guai Washington senza
riscuotere quanto chiede.
Teheran vuole riprendere il ruolo
politico regionale che gli spetta. Dunque chiede non solo che finisca
l’embargo occidentale e che si riaprano i corridoi del dialogo politico,
ma si spinge a proporsi all’Occidente in generale, e agli Stati Uniti
in particolare, come garante di un ordine regionale molto più affidabile
e stabile di quello che si regge sui petrodollari delle monarchie
saudite.
Tanto
Arabia Saudita come Qatar, infatti, sono il vero elemento di
destabilizzazione dell’intera regione. Sono il motore finanziario e
politico del terrorismo mediorientale e Washington non può continuare
per molto a far finta di combattere il terrorismo jiahidista, sia esso
rappresentato da al-Qaeda sia dalle sue derivazioni in Siria o in
Iraq, (tra le quali appunto l’Isil) mentre contemporaneamente è
l’alleato principale delle monarchie del Golfo che li finanziano.
La Casa Bianca è perfettamente conscia del fatto che i diecimila
miliziani di Abu Bakr al Baghdadi sono finanziati e armati dai soldi
sauditi e che saudita è il finanziamento del progetto del califfato
sunnita nei territori tra il nord e l’ovest dell’Iraq e della Siria
orientale attualmente in mano all’Isil.
Teheran interverrà se
necessario, ma il prezzo politico che chiede di pagare agli Stati Uniti
non è minore di quello che l’Iran pagherebbe sul fronte di battaglia.
Non pretenderà certo che gli USA chiedano ufficialmente all’Iran di
intervenire per suo conto, e si rende perfettamente conto che un’azione
comune con “lo Stato canaglia” sarebbe di difficile gestione politica
da parte della Casa Bianca. Ma questo non significa che non sia
possibile un intervento condiviso.
Sebbene infatti lunedì scorso a
Vienna gli Stati Uniti abbiano negato l’esistenza di ”piani di
coordinamento delle attività militari con Teheran” e abbiano ribadito
l’invio di una portaerei e cinque navi da guerra in appoggio nel Golfo
Persico, tutti hanno ben chiaro che l’avanzata dei terroristi dell’Isil
non può essere contrastata solo con aerei, droni o caccia che siano, o
missili dalle navi.
Bisognerà comunque scendere a terra, eliminare il comando militare e
politico dell’Isil e ripristinare il controllo del territorio per
riconsegnare l’Iraq al successore di Al Maliki, comunque ormai bruciato.
E tutti sanno anche che l’Iran è l’unico esercito che dispone di unità
scelte adatte ad una pulizia rapida e in profondità. Peraltro Teheran
può contare sull’appoggio degli Hezbollah libanesi, particolarmente
abili nella guerriglia di città e da un anno autentica maledizione
proprio dei jahidisti dell’Isil nel conflitto siriano.
E
proprio la Siria entra di riflesso nel possibile scacchiere iracheno, perché la stessa Turchia, che si vorrebbe coinvolta nella lotta contro
l’avanzata jahidista, sebbene in quanto paese membro della NATO gode
della fiducia politica di Washington, risulta in buona parte
compromessa, dal momento che proprio Ankara ha rappresentato uno dei
retroterra militari, politici e logistici dei guerriglieri che si
recavano in Siria, alleati con l’Isil, per combattere contro il regime
di Assad.
Quindi l’Iran, che di Assad è alleato, è il solo governo ad avere per
coerenza politica, forza militare e autorevolezza religiosa, le
carte necessarie da giocare sul tavolo iracheno. Ma che,
inevitabilmente, finiranno sul più ampio tavolo del Golfo e del Medio
Oriente.
Le prossime 48 ore indicheranno con maggiore chiarezza
lo scenario della controffensiva in Iraq. La sconfitta dei jiahidisti
dell’Isil sarà la sconfitta del progetto di califfato sunnita e non
potrà non ripercuotersi anche sulle monarchie saudite, che rischiano di
perdere molto di più di quanto hanno investito in armi e terrore per
mantenere i loro regimi medievali e parassitari, autentico vulnus
democratico in tutto il Golfo Persico e l’intero Medio Oriente.
Gli Stati Uniti viaggiano a ritmi spediti verso la loro
autosufficienza energetica e l’importanza degli emiri diminuisce
progressivamente. Sebbene la necessità di mantenere la destabilizzazione
internazionale e la guerra permanente sia inderogabile per il complesso
militar-industriale statunitense, non è detto che un nuovo disegno nel
riassetto dei poteri regionali veda ancora Ryadh in un ruolo chiave.
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