E’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.
A Gaza si combatte e si muore non solo per il diritto del popolo palestinese ad affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome.
A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del sionismo più aggressivo.
A Gaza non si può guardare soltanto con gli occhi dell’umanitarismo becero del cattolicesimo e del generico pacifismo.
A Gaza si sta giocando una partita mondiale.
Partita che si è aperta ormai da molti anni e che, con buona pace di chi predicava circa vent’anni fa la fine della storia, vede venire al pettine tutti i nodi della storia del novecento e della crisi del dominio occidentale (economico, politico e militare) sul globo.
Gli Stati Uniti non sono più credibili e l’Europa Unita è un puro concetto filosofico di scarso valore ed entrambe questa realtà non hanno più la forza di risolvere le crisi internazionali. Né con la diplomazia, né e tanto meno con gli eserciti.
Su questo non c’è alcun motivo per versare lacrime, come alcuni infausti democratici ed intellettuali più sinistri che di sinistra, vorrebbero forse fare.
Il capitalismo e l’imperialismo occidentali stanno declinando rapidamente dopo essersi illusi di aver sconfitto la lotta di classe e dei popoli soltanto perché alcune sigle e definizioni sono scomparse essendo diventate obsolete e prive di significati reali.
Ma la lotta di classe, all’interno di un sistema diviso ed organizzato per trarre profitto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può scomparire. Così come non possono sparire a comando, e nemmeno in seguito alla più terribile repressione, le richieste dei popoli oppressi di veder riconosciuti i propri diritti inalienabili. Poiché, in ultima analisi, la lotta di classe e l’anti-imperialismo non sono soltanto patrimonio del marxismo, del comunismo o dell’anarchismo, ma delle contraddizioni reali, radicate nella storia e nell’economia del sistema mondo.
Allo stesso tempo le contraddizioni del dominio e della spartizione imperialistica del globo stanno venendo a galla. In maniera sempre più evidente e proprio grazie all’indebolimento, non solo di immagine, dell’imperialismo occidentale.
Costretto ormai a delegare, anche contro voglia, ad altri il proprio ruolo di controllore planetario.
Il falso trionfo del 1989 mostra ora le sue drammatiche conseguenze e la spartizione del mondo tra due sole superpotenze è stata sostituita da un intricatissimo gioco di grandi e medie potenze locali con aspirazioni planetarie.
Ma tagliamo subito la testa al toro: oggi a Gaza non sta vincendo Israele.
Come già non aveva vinto nella guerra libanese del 2006, condotta con lo stesso dispiegamento di forze, mezzi e violenza distruttiva. Anzi, l’immagine dello stato ebraico ha iniziato a sfaldarsi anche là dove, per esempio presso l’opinione pubblica americana, era sempre risultata più convincente e vincente.
Non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele.
Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi) e l’Arabia Saudita. Nemica di ogni emancipazione sociale, politica e nazionale in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa e, soprattutto, dell’Iran.
Ne abbiamo già parlato altre volte su Carmilla: non si può capire cosa è avvenuto in Nord Africa e Medio Oriente, dalla caduta del regime di Gheddafi alla guerra in Siria e fino all’attuale “califfato iracheno”, se non si considera l’azione lenta ed inesorabile dell’Arabia Saudita e di alcuni suoi concorrenti degli Emirati per accaparrarsi le riserve petrolifere dell’area e il controllo politico e militare delle aree geografiche interessate.
Infatti tra i vincitori dell’attuale scontro a Gaza vanno annoverati, in primo luogo, i sauditi.
Dalla Libia alla Siria, giù forse fino al Mali e alla Nigeria, le milizie integraliste che si scontrano tra di loro e con i rimasugli del potere statale superstite, lo fanno in nome dell’Arabia Saudita e del Qatar ovvero del petrolio. Occorre dirlo: Al Qaeda di Osama Bin Laden era al confronto una sorta di internazionale progressista, con l’idea di rovesciare il regime saudita, nazionalizzarne le risorse e le ricchezze e non abbandonare, almeno a parole, i vari popoli in lotta al loro destino.
Il progetto visionario, e per molti versi reazionario di Bin Laden, era, nonostante tutto, altra cosa da quello che si sta realizzando tra Iraq e Siria. Da quest’ultimo e dalle milizie jihadiste presenti in Libia e Siria non è mai giunta nemmeno una voce a difesa dei palestinesi. Anzi nei primi giorni del dramma si è cercato di distrarre l’attenzione degli arabi da Gaza attraverso la distruzione della moschea e del mausoleo di Giona.
Certo se si segue con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti dal 2010 in avanti ci si accorge che lentamente ed inesorabilmente le milizie jihadiste si sono progressivamente impegnate, non solo nelle aree petrolifere del continente africano e del Medio Oriente, a coinvolgere in uno scontro militare senza fine tutte quelle forze che, in un conflitto locale o allargato, avrebbero potuto prestare il loro appoggio all’Iran: Hezbollah, Siria e Hamas.
L’obiettivo di indebolire i potenziali alleati del principale nemico comune di Israele e Arabia Saudita è stato infatti raggiunto con l’aggravante, se vogliamo così dire, di aver diviso tra di loro anche alcune di queste forze. Per esempio proprio Hamas e Fratelli musulmani che dopo aver preso le distanze, in maniera opportunistica e becera, dal regime di Assad, sperando in un riconoscimento occidentale, si sono trovati poi alla mercé del colpo di stato militare egiziano (di cui il principale sponsor è stata proprio il capitale saudita) e dell’attacco israeliano (con poco o nessun appoggio militare dai cugini di Hezbollah, già fin troppo impegnati sul fronte siriano).
Cosa quest’ultima che ha spinto e spinge i militanti di Hamas ad intensificare l’azione di “bombardamento” del territorio israeliano per dimostrare la propria esistenza in vita.
Certo la resistenza dei militanti del suo braccio militare ha dell’eroico e il fatto stesso che Israele abbia dovuto richiamare altri 16.000 riservisti, facendo arrivare a quasi 100.000 i militari impegnati nell’operazione d'invasione e controllo territoriale della striscia di Gaza, lo dimostra.
D’altra parte fino ad ora le truppe di terra sono state maggiormente impegnate nelle aree agricole e più scoperte della Striscia. Le aree urbane possono essere devastate, distrutte e massacrate, ma difficilmente conquistate come dimostra tutta la storia del ’900 da Leningrado a Varsavia fino a Grozny. Le vittime dell’esercito di Israele aumenterebbero in maniera sproporzionata e il costo potrebbe risultare troppo alto anche per i più famigerati sostenitori israeliani dell’operazione.
Ma, nonostante ciò e a differenza di Hezbollah nel 2006, molto probabilmente anche Hamas non risulterà nel novero dei vincitori di questo conflitto: troppi morti e troppi sacrifici costerà il tutto ai Palestinesi di Gaza e questo sicuramente significherà un indebolimento delle sue posizioni, politiche e militari.
Mentre l’ipocrisia pacifista ed umanitaria che finge ancora che si possano fare guerre senza coinvolgere i civili e le strutture pubbliche (scuole, ospedali, abitazioni civili, infrastrutture di vario genere) nella distruzione, raggiungerà sicuramente il risultato di confondere ulteriormente le idee sul conflitto e sulle sue cause.
ONU, Ban Ki Moon, Obama, democratici di sinistra e di vario genere, pacifisti cattolici e mille altri pensano che sia possibile limitare i danni, pur mantenendosi equidistanti e riconoscendo il diritto all’autodifesa di Israele. Stupidi, arroganti e ignoranti che pensano, con parole di cordoglio, di nascondere che ogni difesa non può essere che attacco e che, nel caso di Israele, tale difesa può usufruire di mezzi di offesa straordinariamente efficaci e distruttivi.
Dimenticano, tutti e senza distinzione, che già nel 1921 proprio un teorico italiano, Giulio Douhet, nel suo testo “Il dominio dell’aria” (poi divenuto a livello internazionale una vera bibbia della guerra aerea) teorizzava l’uso dell’arma aerea come strumento di distruzione totale delle infrastrutture economiche e civili e di vero e proprio terrorismo nei confronti della popolazione soggetta ai bombardamenti. Infatti l’aviazione militare, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale e dal Vietnam all’Iraq e a Gaza non è stata mai utilizzata per la guerra intelligente (che già di per sé costituisce un curioso ossimoro), ma solo e sempre in chiave terroristica.
Scoprirlo ogni volta, con pianti e strepiti istituzionali e privi di conseguenze, è assolutamente ridicolo e fuorviante. La guerra è la guerra ed è diritto degli oppressi denunciarlo ed opporsi ad essa con ogni mezzo necessario. Altrimenti si rischia di tornare ancora una volta a giustificarla sotto forma di “operazioni di polizia” oppure di “pacificazione” oppure, ancora, con le mille altre formule elaborate dall’opportunismo immarcescibile nel corso degli anni.
Israele, l’abbiamo già detto, anche se dovesse radere al suolo la striscia di Gaza e massacrare tutti i suoi abitanti non vincerà mai questa guerra. Non solo per l’immagine, ma anche perché attraverso di essa e, soprattutto, con una possibile futura guerra all’Iran si sarà totalmente messa nelle mani dei suoi peggiori nemici/amici. Prima di tutto l’Arabia Saudita che, quando avrà acquisito il controllo di quasi tutte le aree petrolifere più importanti dell’Africa e del Medio Oriente avrà buon gioco a ricattare gli USA e ad utilizzare i regimi jihadisti e califfati vari contro Israele stessa.
Nel disastro del Medio Oriente, dopo aver distrutto i movimenti classisti e laici e gli stati nazionali nati da moti anti-coloniali, gli occidentali non hanno più che una carta: la forza militare di Israele.
Dopo aver alimentato il mostro integralista pur di troncare qualsiasi appartenenza di classe e dichiaratamente anti-imperialista dei movimenti in Africa del Nord e Medio Oriente oggi scoprono che dal califfato islamico iracheno e siriano, giù fino alla Palestina, passando per il Libano, e fino a gran parte dell’Africa essi hanno coltivato, da un lato, forze incontrollabili legate agli interessi e agli investimenti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi e dall’altra, e questa la cosa più interessante per l’antagonismo sociale, dei momentanei contenitori per una rabbia che non può più essere ulteriormente compressa.
Una rabbia che affonda le sue radici nelle contraddizioni di classe e nella miseria, ma anche, e forse soprattutto, in quelle ridicole divisioni territoriali legate agli interessi, prima, europei e, poi, americani che, a partite dalla spartizione dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, e dalla dichiarazione Balfour del 1917 hanno riempito il Medio Oriente di linee di confine verticali ed orizzontali che non hanno mai tenuto conto delle reali esigenze dei popoli coinvolti. Come già il Congresso di Berlino del 1885 aveva fatto con il continente africano.
Lasciamo pure piangere i filistei, soprattutto di sinistra, sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.
Tutti i nodi stanno venendo al pettine e l’Occidente è debole come non mai. Mickey Mouse Obama ne è la migliore esemplificazione. E tutti, ma proprio tutti, corrono a mettersi al riparo delle bombe israeliane, sperando che queste li salvino un giorno da ben altri missili sparati contro di loro e da ben altri conflitti, militari e di classe.
Ma i calcoli degli “occidentalisti”, quelli che sventolano in questo contesto le bandiere della democrazia greca, del femminismo di facciata e del cristianesimo di papa Francesco, sono errati e nascondono solo il vuoto politico, esattamente come i discorsi del bulletto di Firenze, e la paura. Di perdere. Tutto.
Anni fa, quando cominciarono le guerre afgane, chi scrive ebbe modo di affermare che la potenza militare statunitense si sarebbe rivelata un colosso d’argilla nei confronti dei combattenti che portavano solo sandali ai piedi e un kalashnikov a tracolla. Mi sembra che nulla abbia contraddetto quella affermazione. Anzi.
Oggi a Gaza è lo stesso. Gli israeliani potranno uccidere migliaia di palestinesi: combattenti, donne e bambini. Ma non vinceranno mai.
La specie nel suo insieme vuole continuare a vivere e non potrà sopportare in eterno una suddivisione dei beni, dei territori e delle risorse che implica una condanna alla miseria e alla morte per miliardi di individui da Sud a Nord e da Est a Ovest.
Nelle sue sempre più spaventose convulsioni il modo di produzione capitalistico, soprattutto qui in Occidente, non ha più altre risposte che la repressione, lo strozzinaggio finanziario e i bombardamenti. Così oggi, non solo per scelta ma neanche solo per necessità, siamo tutti Palestinesi davanti alle forze del capitale.
Ma alla fine la risposta di “quei piccoli uomini e di quelle piccole donne”, di cui ha parlato recentemente Valerio Evangelisti in un articolo, “chiamati a compiti molto più grandi di loro e delle loro capacità”, sarà adeguata e giustificata e ne decreterà la fine insieme a quella di tutti i suoi servi.
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