La marcia dei 200.000 di Madrid organizzata da Podemos può essere letta in vari modi. Un modo è quello di interpretarla guardando esclusivamente al programma elettorale di Podemos. Un programma nato come effettivamente socialista, a sinistra potremmo dire di quello di Syriza, ma che col tempo e con l’accresciuta notorietà mediatica si è andato moderando nel tentativo probabilmente di non spaventare troppo. Un altro modo è quello di leggere questa nuova linfa di un certo tipo di (neo)sinistra dal punto di vista delle classi subalterne, stanche di vedersi ridurre quotidianamente stipendi e diritti, e che concedono nuovamente credito a una sinistra che sembra aver individuato il nodo da sciogliere: contrattare condizioni economiche migliori con l’Unione Europea per riconquistare margini di autonomia politica, minacciando l’uscita dal consesso liberista in caso di non ascolto. Una popolazione convinta non tanto dai programmi o dai leader, ma dall’insofferenza dell’assenza di alternativa, dalla possibile soluzione di una crisi economica infinita.
Uno dei dati acquisiti di questi anni è la sostanziale contiguità politica tra centrodestra e centrosinistra, tra liberali e riformisti. Se fino a poco tempo fa tale lettura era appannaggio dei militanti più scafati o meno illusi dal sistema consensuale mediatico, oggi è patrimonio comune di una parte di popolazione importante, probabilmente maggioritaria. Che riversa le sue speranze verso soggetti che appaiono, almeno in potenza, capaci di cambiare non diciamo lo stato di cose presenti, ma quantomeno la rotta. Progressisti, populisti o reazionari che siano. E in effetti la vittoria di Syriza in Grecia e la forza oggettiva di Podemos in Spagna potrebbero, anche involontariamente, invertire la rotta europeista, generando contraddizioni che potrebbero inceppare il meccanismo liberista su cui si fonda la struttura politica della UE. Discorso simile, bisogna sottolinearlo, a quello riguardante il Front National francese o la Lega Nord di Salvini: due partiti politici che infondono la percezione di essere soggetti esterni e opposti al sistema politico mainstream, anche loro possibili soluzioni alla crisi.
Ad oggi però un dato è significativo: la vittoria di una sinistra in un paese spinge in avanti la forza delle altre organizzazioni politicamente simili, rinnovando uno spirito internazionalista che credevamo di fatto scomparso. Fare come in Grecia, sembrerebbe essere la parola d’ordine della piazza spagnola, una piazza che oggi, secondo i sondaggi, appoggia il partito con più probabilità di vittoria elettorale, Podemos appunto, dato al 30% dei voti. Certo la Grecia da sola è poca cosa, e soprattutto, come leggevamo in un interessante contributo di Infoaut che invitiamo a leggere, la Grecia non può risolvere da sola i mali d’Europa e dei nostri singoli paesi. Soprattutto non potrà farlo Syriza. Serve un moto di solidarietà, e questa solidarietà non si realizza con le brigate kalimera, che mettono solo infinita tristezza, ma con le lotte, con il conflitto. Lotte e conflittualità che riguardano in primo luogo la Grecia stessa, nonché tutti i paesi politicamente soggetti all’egemonia tedesca. Syriza in Grecia – e ancor di più Podemos in Spagna – difficilmente potranno fare da sé. Non hanno la forza contrattuale, e probabilmente non hanno neanche la volontà di portare quelle contraddizioni al punto di rottura. Ma anche se si risolvesse “solo” in una forza contrattuale per rinegoziare condizioni economiche, potrà ben poca cosa lo Tsipras di turno di fronte all’invasività delle strutture economiche europeiste, senza la decisiva capacità dei movimenti di classe di incidere in quelle scelte, di costringerle, puntando ad una rottura per garantire, come minimo sindacale, uno spazio di manovra che oggi Syriza non ha. Non ci sarebbe stata nessuna vittoria elettorale senza la mobilitazione di classe greca, così come Podemos non sarebbe mai nato senza la mobilitazione spagnola che, sebbene su altri piani, meno radicali, ha lasciato dietro di sé la percezione di un’alternativa possibile. Né Syriza né Podemos potranno fare altro che suscitare speranze senza un movimento reale che ponga in essere la lotta per l’alternativa politica. Questo fatto non è secondario ma dirimente per comprendere il processo concreto che ha portato anni dopo all’affermazione dell’uno e alla crescita elettorale dell’altro. Bypassarlo, pensare di essere autosufficienti senza mobilitazione di classe effettiva, significa ragionare al contrario e prepararsi all’ennesima disfatta.
Allo stesso modo, bisogna anche saper cogliere ciò che di buono c’è in una vittoria elettorale, capace per di più di aprire uno scenario potenzialmente fecondo. E cioè la necessità della sintesi politica. Se le lotte di classe (sottolineiamo: le lotte di classe, non le lotte genericamente intese, trasversali, d’opinione) sono necessarie, la conditio sine qua non senza la quale è impossibile immaginare processi di rappresentanza, allo stesso modo non è esclusivamente tramite un accumulo di lotte sociali che le nostre rivendicazioni arriveranno a trovare una sintesi che le possa spingere più in alto. Il successo elettorale di Syriza non è dato solo dalla sua presenza nelle mobilitazioni greche, ma dall’aver capito che organizzando e rappresentando quel panorama conflittuale sarebbe stato possibile incidere nei rapporti di forza, porre un problema per il potere. La lotta per il potere, cioè la lotta politica, è il necessario corollario alla conflittualità sociale. E in assenza di insurrezioni armate all’orizzonte, l’altro scenario possibile è la lotta anche dentro i luoghi della rappresentanza politica.
Purtroppo, sia detto per inciso onde evitare fraintendimenti, questo scenario non è presente in Italia. In assenza di movimento di classe, è inutile avvitarsi su come riprodurre una Syriza italiana. L’unico modo per fare come in Grecia, in Italia, è tornare ad una mobilitazione costante, conflittuale, che non abbia paura dell’uso della forza. Questa è stata la Grecia per lunghi anni, ed è da lì che è partita la vittoria elettorale di Syriza. Pensare di aggirare quel movimento reale tramite accordi da ceto politico significherebbe reiterare la propria irrilevanza. Quando anche in Italia avremo 22 scioperi generali in un solo autunno, quando ogni sabato le vie dei centri cittadini saranno espressione della rabbia di classe, quando interi quartieri saranno controllati da un contropotere effettivo o anche solo da un tacito consenso verso un’alternativa di potere, solo allora potremo ragionare di possibili – e necessarie – rappresentanze politiche.
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